“Gesù, il primo migrante”. Padre Alejandro Solalinde e la sfida delle migrazioni

Padre Alejandro Solalinde e l'impegno a difesa di quanti vengono rapiti dai narcotrafficanti: “La Chiesa deve imparare da loro, stando con loro”.

A Riva del Garda invitato dai Verbiti ha spiegato perchè non teme di essere ucciso: “Non voglio essere un martire ma voglio vivere l'amore che ci ha insegnato Gesù”

“La croce per me rappresenta un programma di vita”.

“L donne, le mamme, sono le migliori maestre, guardo tutto quanto fanno loro”.

A sentirlo parlare, con la mitezza e la chiarezza degli uomini di Dio, ci pare ingiusto che su questo piccolo inerme uomo in dolcevita bianca, qualcuno abbia potuto mettere una taglia di cinque milioni di pesos, 220 mila lire: wanted! E' ricercato dalle oscure bande dei narcotrafficanti, padre Alejandro Solalinde. A 65 anni deve muoversi con quattro uomini di scorta, ma non è preoccupato del fatto di dover presto tornare in Messico, oggi il secondo Paese al mondo in ordine di pericolosità (dopo la Siria).

“Solalinde è uno dei più importanti difensori dei migranti nel nostro tempo”, ha riconosciuto The Los Angeles Times, ed ora che il Comitato di Oslo ha accettato di esaminare la candidatura popolare a Premio Nobel per la Pace, la sua notorietà è esplosa. E nello scorso fine settimana è stato uno dei nomi più applauditi – assieme a padre Alez Zanotelli e al card. Tagle – nell'affollato primo Festival della missione, per il suo coraggioso libro “I narcos mi vogliono morto” che è stato uno dei titoli più “rumorosi” al Salone del libro di Torino.

Grazie all'editrice Emi, Solalinde è tornato sulle rive trentine del Garda dove nel 2011 aveva partecipato a “Sulle rotte del mondo” ed era stato intervistato a radio Trentino inBlu. “Torno volentieri qui in Trentino – ci dice accogliendolo insieme all'organizzatore padre Giangfranco Maronese nella “Sala del dialogo” dei Verbiti a Riva del Garda – anche perchè il vostro padre Eusebio Chini è stato un grande missionario e un grande evangelizzatore sulla frontiera messicana. E' ancora molto amato da noi”. E accetta di cominciare l'intervista pubblica dal segno che porta al collo.

Padre Alejandro, perchè questa croce greca a forma concava?

Non è una croce estetica, non mi interessa lo stile. E' una croce, non importa sia lunga o larga, l'importante è l'incrocio fra orizzontale e verticale, fra umano e divino . Mi ricorda la persona di Gesù che è Dio d'amore: ci amò per primo. L'abbiamo “pensata” ancora nel 1992 insieme ad un giovane artista missionario, Martin Chivas: è una croce che abbraccia, le sue braccia si aprono e si protendono verso l'esterno (mima lui stesso la posizione delle braccia, ndr), quasi volessereo stringerci a sé.

Nel cordino si scorge un nodo solo, invece dei classici tre nodi che ricordano i tre voti religiosi. Come mai?

Per me l'unico nodo riassume la disponibilità. E' un nodo importante e nei momenti più pericolosi, quando devo prendere una decisione difficile, prendo questo nodo e lo schiaccio, dicendo: “Gesù, aiutami. Io sono disponibile”. La croce per me rappresenta un programma di vita. Dio mi ha dato molte cose, ma la più bella è vedere voi come mia famiglia, e volervi bene. Non pensate che sia romantico, come uomini restiamo un mistero, capaci di fare cose grandi e piccoli, ma non dobbiamo dimenticare che Gesù ha dato la vita per noi.

Qual è la frase del Vangelo che conserverrebbe se dovesse strappare tutte le altre pagine della Bibbia?

Non è una frase sola. Ma è tutta la vita di Gesù. Egli oggi ci appare come un migrante, il più famoso della storia. Il primo movimento è nell'incarnazione. Nella gravidanza Maria si sposta e il neonato è un migrante locale. Diventa un pericolo pubblico per erode, un migrante “forzato”, poi sarà rifugiato politico in Egitto. Quando Erode non c'è più, si converte in migrante di ritorno e tutta la sua vita è stata una migrazione interna…E' meraviglioso vedere Gesù come un missionario in movimento, che insegna la buona notizia del Regno di Dio.

Anche lei si definisce missionario migrante, padre Alejandro, alla vigilia di questa Giornata missionaria mondiale…

Anche i dodici apostoli sono i primi misssionari, tutti maschi, secondo la cultura dell'epoca. Ma a me piace considerare anche la dodicesima missionaria e apostola, Maria Maddalena. Lo dicono San Giovanni e San Luca e noi lo abbiamo ignorato per tanti secoli ma ora Papa Francesco lo ha riconosciuto il 17 maggio di quest'anno di piazza San Pietro. E dopo di loro ci sono tanti altri e tutti noi perchè tutta la Chiesa deve essere missionaria, apostolica.

Purtroppo tanti successori si sono dimenticati del discepolato del Gesù ed hanno tagliato fuori le donne. Siamo diventati apostoli troppo residenziali, poco itineranti. Sono convinto però che oggi lo Spirito Santo non stia con le mani incrociate. Anzi spinga la Chiesa da dietro, anche attraverso Papa Francesco, a rimettersi in cammino. E lo fa anche attraverso i migranti e la compagnia che loro ci richiedono.

Nel suo rifugio “Hermanos en el Camino” a Ixpetec, verso la frontiera con gli Stati Uniti, voi accogliete tanti migranti in transito, quasi 500 mila ogni anno. Fuggono per lo più da Guatemala, Honduras e Salvador. Molti di loro, senza documenti, vengono fatti sparire e tenuti come ostaggio di ricatti…

Molti vengono anche usati come carne da macello, compresi le donne e i bambini. Ma si tratta di una forma di crimine organizzato e – sono solito dire – anche “autorizzato” perchè in Messico oggi c'è una corruzione molto forte. Ci sono governatori complici di tanti sequestri. Il lavoro che stiamo facendo è anche quello di ricostruire la legalità.

Che cosa rappresenta il muro – in parte realizzato, in parte minacciato – da Donald Trump?

Penso che i muri siano parte di un mondo che sta restando indietro. L'umanità deve imparare, dal muro di Berlino non abbiamo imparato perchè in Europa se ne costruiscono altri: nella mente e nel cuore, e sono i muri peggiori.

Trump non è un pericolo, lui passerà. Ma mi preoccupa l' ideologia, quel trumpismo di ogni tempo, che è la supremazia marziale sugli altri. Essa può essere storicamente di colori politici diversi e può avere nomi diversi, può essere anche dentro di noi.

Invece – come dice il Papa – dobbiamo costruire ponti e nel nord del Messico abbiamo movimenti di base, studenti universitari che intrecciano relazioni con altri degli Stati Uniti, senza paura.

Che cosa condivide della teologia della liberazione?

E' nata in un particolare momento storico e ne condivido totalmente l'opzione preferenziale per i poveri. Penso però che secondo il Vangelo non bisogna dimenticare i ricchi, credo che dobbiamo parlare di un'opzione irrevocabile per l'essere umano, qualunque essere umano. Altrimenti la scelta dei poveri diventa ideologia e rischia di sfociare in un settarismo escludente. Qualche volta è accaduto ma ora dobbiamo imparare dalla storia.

In questi giorni in Europa lei ha toccato con mano anche il dramma del Mediterraneo. Che ne pensa?

Credo che si stia realizzando con l'emigrazione forzata un fenomeno irreversibile: non si può tornare indietro. Ma nel Mediterraneo, come in America, è in atto un nuovo genocidio, un olocausto. Il sistema capitalista sta uccidendo queste persone: prima perchè le fa uscire dal Paese d'origine, secondo perchè muoiono lungo il cammino, terzo perchè non li vogliamo accogliere nel nostro mondo.

Noi possiamo rompere le leggi ma dobbiamo essere pronti alle conseguenze: non abbiamo imparato dalle due guerre mondiali e dai genocidi. Nel caso del Messico muoiono in maniere diverse, perchè l'uomo – vivo e morto – è considerato merce. E' terribile.

Lei ha conosciuto Oscar Romero e altri che hanno pagato con la vita. E' consapevole del rischio?

“Io non voglio morire martire, la vita è molto bella. Non tengo niente, ma con Gesù ho tutto. La vita vale la pena viverla, rischiare. Devo dirvi che ho molte maestre e maestri. E le donne, le mamme, sono le migliori maestre, guardo tutto quanto fanno loro. Sono capaci di dare la vita per i loro figli. Ma se gli toccano il figlio, diventano guerriere. E quando arrivano i migranti nel nostro rifugio, mi domando cosa direbbero se le loro mamme fossero qui ad accoglierli. E così cerchiamo di farlo noi”.

Il libro

S’intitola “I narcos mi vogliono morto” il libro che padre Alejandro Solalinde ha scritto insieme alla giornalista di Avvenire Lucia Capuzzi per l’editrice Emi. E’ il racconto molto documentato, accostato alle riflessioni evangeliche che ne sono scaturite, dell’azione a favore dei migranti compiuta da padre Solalinde alla frontiera messicana con gli Stati Uniti. “Un libro – scrive don Luigi Ciotti – che mette in luce la natura etica e politca del Vangelo”.

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