La rivincita dei marroni

Già al tempo della Grande guerra il legno dei castagni fu utilizzato per le traversine delle ferrovie. Poi, vent’anni fa, il recupero con il ritorno alla terra, ai marroni, alla natura

Albiano, ottobre. Non avrà problemi di materia prima, quest’anno, la festa della castagna, appuntamento annuale diventato ormai tradizione (la prima si tenne nel 1982) e che è programmato nel fine settimana ad Albiano.

Il paese del porfido, che aveva abbandonato la castanicoltura a metà degli anni Sessanta per dedicare investimenti e fatica nella lavorazione della pietra, torna a far fruttare i marroni. Merito di un gruppo di giovani i quali, vent’anni fa, si sono riuniti, hanno deciso di recuperare i vecchi castagni affidandone la potatura e l’innesto ai tecnici di San Michele all’Adige. Gli stessi che in anni recenti hanno risolto l’infestazione dal cinipide galligeno, un imenottero arrivato dalla Cina.

Per alcune stagioni “la mosca del castagno”, com’è stato chiamato il Cinipide, ha devastato i raccolti e costretto gli organizzatori della “castagnàda Biana” a importare quintali di marroni dal Piemonte e financo dalla Cina.

“Quest’anno l’emergenza è stata superata”, spiega Adamo Ravanelli, classe 1967, appassionato castanicoltore di Albiano, tra i promotori dell’opera di recupero di una coltura che ha radici millenarie.

Fino agli anni Sessanta, Albiano produceva più di duemila quintali di marroni. Il solo Giuseppe Ravanelli, da Barco di Sopra, aveva una produzione di oltre cento quintali. Erano venduti a Trento e altrove, oppure scambiati: un chilo di castagne contro un chilo di farina. Erano celebri le donne di Albiano con le “sfilze de castègne” che scendevano in città per la fiera di S. Lucia (13 dicembre) e di San Giuseppe (19 marzo). Ma con le collane di marroni erano presenti pure a Lavis (per la fiera della Lazzera) e a Mezzocorona, in occasione della fiera di San Gottardo (fine aprile).

La coltivazione e la raccolta delle castagne era sottoposta a vigilanza da parte della Comunità.

Già nei capitoli della carta di Regola di Albiano (1547) si stabiliva che nessuno poteva “batter castagni comuni prima del giorno di San Michele (29 settembre)”. Nel 1784 era stata definita “la divisione dei Castegnari selvatici” fra la popolazione del comune.

Non fu solo il porfido a soppiantare queste coltivazioni. Già al tempo della Grande guerra il legno dei castagni fu utilizzato per le traversine delle ferrovie. Dopo la seconda guerra mondiale, il tannino del castagno fu impiegato per la concia delle pelli. In tempi di fame, la popolazione di Albiano e di Lona-Lases cercò di arrangiarsi alla bell’e meglio, tagliando gli alberi e vendendo la legna. In tutta la Val di Cembra i castagni furono recisi.

Racconta Adamo Ravanelli: “Abbiamo perso un patrimonio enorme anche perché fino agli 800 metri di altitudine non c’erano altro che boschi di castagno”. La maggior parte su terreno comunale, quasi tutti innestati.

Lo stesso stemma comunale di Albiano ha per emblema un castagno al quale, negli anni Settanta del secolo scorso, furono aggiunti i cubetti.

La coltivazione delle cave fu una scelta che a metà degli anni Sessanta pareva vincente. La crisi degli ultimi dieci anni ha riportato l’orologio della storia indietro di mezzo secolo.

Per far posto alle ruspe e ai cavatori di porfido furono sradicati centinaia di castagni plurisecolari. Il più imponente, il “re del Marigiat”, fu abbattuto con una carica di dinamite il cui scoppio fu udito in tutta la valle di Cembra.

“Ricordo che per arivàr en cima al castegnàr del Marigiàt ghe voleva do scale da vinti scalini”, raccontò Rodolfo Zancanella, 78 anni, tra i più anziani castanicoltori di Albiano. Estirpati i “castegnàri”, la dinamite fu usata per cavare la pietra. Cambiava l’economia e il frutto dell’autunno che aveva reso celebre Albiano ben oltre gli stretti confini della regione, fu relegato all’autoconsumo familiare.

Il “dio porfido” prese piede al punto che molte colture furono abbandonate, i campi che scendevano a gradoni fin sul greto dell’Avisio tornarono boscaglia, gli antichi castagni si inselvatichirono.

Fino a vent’anni fa, con il ritorno alla terra, ai marroni, alla natura. Tant’è che sopra l’abitato di Albiano, nel 2002 è stata avviata la coltivazione sperimentale su un ettaro e mezzo. Nel 2017 le piante sono entrate in produzione, assicurando in tal modo una parte delle richieste per la “castagnàda biana”. Nel castagneto, l’artista Egidio Petri, da Segonzano, ha scolpito nel porfido tre statue (2004): il bacchiatore dei castagni, la raccoglitrice dei marroni e una donna “col cestòn” di ricci.

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