La vite selvatica salverà la viticoltura

Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori coordinati da Stella Grando. I geni potrebbero essere trasferiti con tecniche di avanguardia alla vite coltivata

Nel libro “La vigna antica” scritto da Leonardo Franchini su traccia di Attilio Scienza si racconta il lungo e laborioso percorso materiale e di contatti fatti dal prof. Espina e dalla giovane ricercatrice Anna per salvare alcune viti antiche di Marzemino trovate in un vigneto della valle di Ronchi (Ala). Nello stesso periodo (anni ’80 del secolo scorso e inizi del terzo millennio) altri ricercatori, soprattutto francesi e tedeschi, si danno da fare, agendo da soli o in concorrenza con altri, compreso Espina, per trovare o riscoprire la vite ideale. Nella convinzione che la viticoltura moderna, esasperatamente orientata a raggiungere l’eccellenza qualitativa dell’uva e del vino, dovrà affrontare grosse difficoltà di carattere fitosanitario e ambientale in conseguenza dell’ormai inevitabile cambiamento climatico. Consultano vecchi documenti, interrogano colleghi anziani, si recano nel Caucaso e in altri Paesi orientali dai quali sono partite le prime viti messe a dimora nei Paesi occidentali.

Arrivano finalmente a stabilire un patto di collaborazione fra i rispettivi centri di ricerca con la prospettiva di utilizzare di comune accordo la vite ideale che però rimane sconosciuta al lettore. Nella postfazione al libro Attilio Scienza propone una carrellata storica dalla metà dell’’800 ai giorni nostri, descrivendo nel lungo arco di tempo il lavoro svolto dai genetisti con alterni risultati e approda a due risultati concordi: l’ottenimento di 10 varietà di vite europea resistenti a peronospora da parte dell’Università di Udine e di quattro nuovi portainnesti intestati all’Università di Milano. Il capitolo si conclude con un convinto atto di fiducia nelle nuove tecniche di miglioramento genetico: cisgenesi e genome editing.

Un nuovo capitolo di questa lunga storia che si svolge sulla traccia indelebile delle leggi di Mendel è stato avviato da uno studio condotto dai ricercatori del Centro Agricoltura Alimenti Ambiente, struttura accademica congiunta tra Università di Trento e Fondazione Mach (C3A) in collaborazione con l’Università della California. Pubblicato sulla rivista del gruppo Nature “Horticulture Research”. Il lavoro è stato coordinato da Stella Grando, ricercatrice nel dipartimento Genomica della Fondazione Mach, ora docente all’Università di Trento nel corso di viticoltura ed enologia. Stella Grando ha iniziato a lavorare nel dipartimento Genomica applicata dalla metà degli anni ’90 e ha sempre dimostrato di saper coniugare la ricerca con la pratica, soprattutto nel campo della viticoltura. Ha dimostrato che il Groppello di Revò non ha alcuna parentela genetica con i Groppelli della Lombardia. Il vitigno Rebo è frutto di incrocio MerlotXTeroldego e non MerlotXMarzemino. Molte varietà di vite allevate in Trentino apparentemente diverse fra loro sono invece legate geneticamente a progenitori comuni.

Contenuti e possibilità applicative delle ricerche condotte dal gruppo internazionale sono descritti in un comunicato diffuso dalla Fondazione Mach il 3 luglio 2018. Ad esso la stessa ricercatrice ha affiancato un testo didattico che facilita la comprensione dei concetti scientifici.

La riscoperta nella vite selvatica di geni andati perduti nei processi di domesticazione offre la possibilità di trasferirli con le moderne biotecnologie alla vite europea. Il miglioramento genetico potrebbe in altri termini conferire alla vite domestica maggiore resilienza (capacità di reazione) alle sfide del cambiamento climatico, al deficit idrico, alle alte temperature e agli attacchi di patogeni. La domesticazione della vite selvatica è opera dell’uomo e risale a circa 8.000 anni fa. Nella scelta dei caratteri da mantenere l’uomo antico ha tenuto conto degli aspetti qualitativi dell’uva. Tale scelta ha originato i vitigni moderni. Varietà molto diverse per quanto riguarda gli aspetti produttivi ma con debolezze sostanzialmente simili, se si pensa alla suscettibilità alle malattie e la risposta agli stress ambientali. Il team internazionale ha voluto indagare le differenze tra vitigni coltivati e viti selvatiche attraverso un confronto genomico con l’obiettivo di comprendere quali geni sono stati preferiti dall’uomo nel processo di domesticazione della vite; quali geni possono essere riscoperti nella vite selvatica e restituiti ai vitigni coltivati attraverso l’incrocio e le modificazioni genetiche.

Le viti selvatiche europee sono a rischio di estinzione, conferma Stella Grando, ma nelle collezioni di germoplasma e nelle regioni dell’Asia centrale ci sono ancora delle risorse da esplorare. Speriamo che attirino una maggiore attenzione da parte degli ibridatori. “Noi abbiamo confrontato 48 vitigni di Vitis vinifera sativa con 44 individui di Vitis sylvestris e siamo riusciti a riscoprire geni o varianti geniche andati perduti nei processi di domesticazione, ma che in passato hanno permesso alla vite selvatica di sopravvivere alle difficoltà ambientali”. Abbiamo chiesto a Stella come si trova nella veste di docente all’Università. E’ bello trovarsi con i giovani, ha risposto. Come dire: spetta a loro il compito di dare pratica applicazione alle nostre ricerche.

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