Transizione birmana

Una voce dall’interno del Paese che vive il faticoso passaggio verso la democrazia, dopo gli anni bui della dittatura militare

Accogliendo l’invito dei rispettivi capi di Stato e vescovi, Papa Francesco compirà un viaggio apostolico in Myanmar (ex Birmania) dal 27 al 30 novembre prossimi, visitando le città di Yangon e Nay Pyi Taw (la nuova capitale), e in Bangladesh dal 30 novembre al 2 dicembre, visitando la città di Dhaka. Il programma del viaggio non è ancora definito nei dettagli. Ma si sa che il logo della visita in Myanmar è un cuore, che simboleggia l’amore come tema che accomuna il cristianesimo e il buddismo, religione maggioritaria in Myanmar. “C’è grande attesa in tutto il Paese, e non solo tra i circa 600 mila cattolici, che rappresentano appena l’1,5 per cento della popolazione”, spiega a Vita Trentina don Giovanni Aye, sacerdote cattolico birmano dell’Arcidiocesi di Mandalay, nel suo italiano perfetto, senza particolari inflessioni, frutto dei sei anni di studio in Italia, negli anni Novanta.

Alla vigilia del suo rientro in Myanmar, don Giovanni accetta di buon grado di offrire il suo punto di vista su un Paese tornato in questi giorni alla ribalta delle cronache internazionali per l’esodo mortale alla frontiera fra Bangladesh e Myanmar della minoranza musulmana Rohingya, originaria del Bangladesh, ma da generazioni sul suolo birmano. La maggior parte degli sfollati proviene dallo Stato birmano del Rakhine, dove dallo scorso 25 agosto sono riprese le violenze tra i militanti musulmani dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) e i militari dell’esercito. Una questione sensibile nel Paese, tanto che la Conferenza episcopale del Myanmar ha suggerito a Papa Francesco di non usare il termine “Rohingya” durante il suo prossimo viaggio apostolico. Senza minimizzare la crisi della minoranza Rohingya, don Giovanni invita però a inquadrarla nella situazione generale del Paese, che – a seguito delle elezioni parlamentari del novembre 2015 e l’affermazione della Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi – vive una faticosa fase di transizione verso la democrazia in un difficile e ostacolato cammino di riconciliazione nazionale, dopo gli anni bui della dittatura militare. “La presenza di oltre 130 etnie rappresenta una ricchezza, ma certo non facilita processi di ‘nation building’, di costruzione di un ordinamento statuale democratico”, osserva don Giovanni, ricordando che già il padre di Aung San Suu Kyi, negli anni Quaranta, aveva promesso autonomia alle minoranze all’interno di uno Stato federale. Ma nel 1947 veniva assassinato. E nel 1962 il colpo di stato militare poneva un giogo pesante su un Paese che per floridezza e democrazia non aveva nulla da invidiare a molte realtà vicine.

Oggi le forze che lavorano nell’ombra per ostacolare una svolta reale e irreversibile sono ancora potenti. I nostalgici della dittatura militare esistono e hanno tutto l’interesse a utilizzare strumentalmente la crisi dei Rohingya per destabilizzare il Paese e per screditare la figura di San Suu Kyi, gettando ombre sulla sua dirittura morale. Potrebbero essere lette anche in questa luce le accuse che le vengono rivolte di indifferenza nei confronti della minoranza musulmana. E non va dimenticato che, pur avendo conseguito con il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, un successo netto, il 25% dei seggi resta riservato a membri nominati dalle forze armate, che detengono anche tre ministeri chiave (Difesa, Interno e Sicurezza delle frontiere): e la leader deve farci i conti. Anche nel nord, al confine con la Cina, la situazione è tutt’altro che pacificata. E la presenza di 17 gruppi armati ha creato nel Paese un numero consistente di sfollati interni (Internally Displaced Persons), che hanno cercato rifugio e assistenza nelle chiese protestanti e cattoliche.

Pure la corruzione diffusa, radicata a tutti i livelli, rappresenta un serio ostacolo alla costruzione della nazione, che con fatica però procede grazie anche al contributo delle Chiese cristiane. “Da minoranza, la Chiesa partecipa positivamente a questo processo, offrendo il suo efficace contributo in campo sociale, in campo educativo, nella sanità”, osserva don Giovanni. Scuole e ospedali, dispensari, centri di cura per le persone affette da Hiv e Aids sono i luoghi dove la Chiesa è presente per piegarsi sulle sofferenze, senza guardare all’appartenenza etnica o religiosa. “In Myanmar le persone di tutte le religioni hanno vissuto insieme e sofferto insieme”, sottolinea don Giovanni, facendo acutamente notare che la contrapposizione e il conflitto tra musulmani e buddisti – nella sua tradizione Theravada il buddismo è praticato dall'89 per cento degli abitanti – fa solo il gioco di quelli che lui chiama i nostalgici della dittatura. Mentre c’è più che mai bisogno di sostenere, anche da parte della comunità internazionale, gli sforzi per la collaborazione e la riconciliazione.

La visita del Papa giunge all’indomani della ripresa di rapporti diplomatici tra Vaticano e Myanmar. Fino al 2017 non esistevano relazioni tra i due Stati e il Papa era rappresentato presso l’episcopato locale da un delegato apostolico (l’incarico fu affidato a mons. Luigi Bressan dal 1993 al marzo 1999, quando Papa Giovanni Paolo II lo nominò arcivescovo di Trento). “La riapertura di relazioni diplomatiche è un indubbio riconoscimento del nostro processo democratico”, osserva don Giovanni. E nel Paese ci si aspetta che l’arrivo del Papa possa dare una spinta anche alla riconciliazione e al dialogo tra Myanmar e Bangladesh, a beneficio soprattutto dei deboli e degli esclusi.

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