“Io, Hope, seminatore di speranza”

“Il nostro compito? Dare fiducia, seminare speranza”. Lo dice con semplicità, Abdel Akh, provando a spiegare cosa voglia dire essere un “Hope”, un “pari” tra i senza dimora. Li hanno chiamati così perché dei senza dimora conoscono il vissuto, anzi, tali sono ancora. E proprio questa loro condizione diventa, all’interno del progetto Hope avviato dalla Fondazione Comunità Solidale con Villa Sant’Ignazio e l’Area inclusione del Comune di Trento, un punto di forza. Abdel Akh è stato ospite delle strutture di accoglienza. “Sono stato accolto sei mesi a Casa Orlando”, ci dice. “Poi ho cominciato a far parte del gruppo Hope come volontario. Facevo le notti come responsabile della Casa”. Dopo qualche tempo il servizio da volontario è diventato retribuito. “Poca cosa – precisa Giulio Bertoluzza della Fondazione Comunità Solidale -, si tratta di un servizio limitato nelle ore, comunque sufficiente per responsabilizzare”. “Noi Hope – spiega Abdel Akh, nel suo italiano sostanzialmente corretto – portiamo un qualcosa di più, o comunque qualcosa di diverso, rispetto agli operatori. Anche noi, come le persone che siamo lì ad aiutare, sappiamo bene cosa voglia dire la mancanza di lavoro, conosciamo la realtà disastrosa che si vive in questo tempo. La vita di povertà e sofferenza che vivono queste persone anche noi l’abbiamo conosciuta… e la conosciamo. Riusciamo a stabilire con loro una relazione che è più vicina di quella dell’operatore. Io, ad esempio, ho mangiato al Punto d’Incontro e alla mensa dei Cappuccini e per chi vive oggi questa stessa esperienza è più facile aprirsi, confidarsi, condividere sofferenze e disagi. Diamo fiducia e riceviamo fiducia”. Anche se, ammette poi con un sorriso, “io che nel mio Paese, il Marocco, ma anche in altri Paesi, lavoravo come tecnico dell’alta tensione, devo dire che con le persone ci vuole ancora più prudenza! Rapportarsi con gli altri è esaltante, ma anche molto difficile. Ci aiuta la cultura comune, così come l’esperienza. Sappiamo dare un di più di flessibilità, senza ingabbiarci in regole troppo rigide. Cerchiamo di valutare situazione per situazione. Ognuno è diverso dall’altro”.

Cosa l’ha spinta, chiediamo, ad impegnarsi in questo percorso? “La mia cultura, ma anche la nostra comune umanità, ci dicono che dobbiamo aiutarci l’uno con l’altro. Dà soddisfazione vedere le persone che crescono, trovano casa, magari anche un lavoro. Questo percorso è stato una scuola, ho imparato tanto… e il bello, avendo a che fare con le persone, è che impari sempre”.

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