Verso il referendum

In vista del referendum costituzionale del 4 dicembre, spieghiamo cosa prevede la riforma riguardo al superamento del bicameralismo paritario, al numero dei parlamentari, ai costi e al Cnel. La settimana prossima vedremo le variazioni attinenti alle autonomie locali, in particolare le Regioni (titolo V della Carta costituzionale).

Quando si parla di riforma costituzionale, quella su cui come cittadini siamo chiamati a esprimerci nel referendum del prossimo 4 dicembre, ci si riferisce a un testo ben preciso: la legge costituzionale pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n.88 del 15 aprile 2016 e che concerne “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”.

Questa formula, il titolo della legge, dovrebe comparire sulla scheda elettorale che ci verrà data al seggio elettorale. I sostenitori del No l’avevano contestato, sostenendo che trattandosi di un titolo programmatico – e non “tecnico” come avvenuto in passato – la sua presenza sulla scheda può avere un effetto propagandistico. I sostenitori del Sì hanno obiettato che anche nei due precedenti che esistono la scheda conteneva il titolo della legge; che lo scorso 6 maggio l'ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha dato il via libera al quesito; che entrambi gli schieramenti hanno raccolto le firme sul quesito così formulato.

Nel merito, si attende il pronunciamento del Tar del Lazio. Ma la diatriba sul titolo della legge nella scheda rende ancora più utile il tentativo di spiegare la sostanza che c'è dietro quelle parole. Lo faremo in due momenti (questa è la prima parte): 1) bicameralismo; numero dei parlamentari, costi e Cnel; 2) autonomie locali, in particolare le Regioni (titolo V della Carta).

Il superamento del bicameralismo

Il “superamento del bicameralismo paritario” è anche l’aspetto più macroscopico della riforma. Attualmente Camera e Senato hanno le stesse funzioni; in particolare, entrambe votano la fiducia al governo e hanno il medesimo ruolo nella formazione delle leggi. La riforma prevede che spetti soltanto alla Camera il voto di fiducia al governo, così come l’approvazione di gran parte delle leggi.

Il Senato (che passa da 315 membri eletti direttamente a 95 rappresentanti di Regioni e Comuni: ma su questo ci soffermeremo quando sarà il turno del secondo punto del quesito) può avanzare proposte di modifica, ma su di esse la Camera si pronuncia in via definitiva. Fanno eccezione una serie di leggi particolari che vengono espressamente indicate e che richiedono la doppia approvazione.

I cambiamenti introdotti nel procedimento legislativo prevedono anche il cosiddetto “voto a data certa” per le leggi che il governo ritiene essenziali per attuare il suo programma e limiti costituzionali per i decreti legge dell'esecutivo.

In parte connesse con il nuovo bicameralismo sono le modifiche al quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e alle modalità di elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare, così pure l’introduzione del giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali da parte della Consulta. Cambiamenti riguardano anche il quorum per i referendum abrogativi e la previsione di referendum propositivi e di indirizzo. Passa da 50 mila a 150 mila il numero delle firme necessarie per le leggi d’iniziativa popolare a cui i regolamenti parlamentari dovranno garantire l’esame e la deliberazione finale.

La composizione del Senato

Laddove si parla di riduzione del numero dei parlamentari, il riferimento è ovviamente alla composizione del Senato, che nel testo della riforma passa dagli attuali 315 membri (più i senatori a vita) eletti a suffragio universale come rappresentanti della nazione, al pari dei deputati, a 95 rappresentanti delle istituzioni territoriali, tra consiglieri regionali e sindaci (più i senatori di diritto, cioè gli ex presidenti della Repubblica, e cinque di nomina presidenziale in carica per sette anni e non più a vita). I nuovi senatori vengono eletti dai consigli regionali – i tecnici parlano di elezione indiretta o di secondo grado – “in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. In che modo questo avverrà concretamente lo stabilirà la legge elettorale che dovrà essere approvata dalle Camere (in Italia le leggi elettorali non sono leggi costituzionali).

Secondo i criteri stabiliti dalla riforma costituzionale e con l’ancoraggio al dato demografico dei censimenti, tra i 95 senatori elettivi si calcolano nella situazione attuale (censimento del 2011) 74 consiglieri regionali distribuiti secondo la popolazione di ogni regione e 21 sindaci, uno per regione più le due province autonome. All’art. 57 si stabilisce infatti quanto segue: “I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori”.

Dunque non avremo più le elezioni per il Senato come le abbiamo conosciute finora, perché questo organismo avrà – per dirla sempre con gli esperti – un “rinnovo parziale continuo”. In altre parole i senatori di ciascuna regione cambieranno con il rinnovo dei rispettivi consigli regionali e decadranno quando il loro mandato locale cesserà. Ai senatori non spetterà l’indennità parlamentare in quanto già destinatari degli emolumenti previsti dalla loro carica regionale, che non potrà superare la somma percepita dal sindaco del comune capoluogo. La riforma prevede inoltre che ai gruppi consiliari delle Regioni non potranno essere erogati “rimborsi o analoghi trasferimenti monetari” a carico della finanza pubblica.

I costi della politica

E qui tocchiamo il terzo punto, la questione del “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”. È uno dei terreni più controversi della campagna referendaria. Da un lato ci sono alcuni punti fermi, come quelli che abbiamo elencato, a cui vanno aggiunti la definitiva abolizione delle Province (peraltro già ridotte ai minimi termini con legge ordinaria, ma non del tutto eliminate proprio perché previste nella Costituzione) e la soppressione del Cnel. Dall’altro lato, però, la portata effettiva dei risparmi che si otterrebbero con il complesso della riforma è affidata a delle stime, in merito alle quali le valutazioni dei sostenitori del sì e del no divergono drasticamente.

Cnel, un organismo mai decollato

Il quarto punto del titolo della legge è la già citata soppressione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. È stato istituito nel 1957 sulla base dell’art.99 della Costituzione, come “organo di consulenza delle Camere e del Governo”, dotato del potere di “iniziativa legislativa” e composto da “esperti” e “rappresentanti delle categorie produttive”. Un organismo di compensazione sociale molto importante sulla carta, ma che nonostante la riforma del 1986 in tanti anni non è mai decollato (per colpe proprie e per la sistematica marginalizzazione nella vita politico-istituzionale) e di cui forse molti cittadini non conoscono neanche l’esistenza.

(1. continua)

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