Prigionieri della tattica infinita

La politica è ancora alle prese con l’incapacità di decidere gli obiettivi di fondo su cui puntare. Vale per tutti, nessuno escluso, anche se ognuno si inalbera quando se lo vede rinfacciare. Naturalmente non consideriamo obiettivi di fondo gli ideologismi di bandiera, su cui insiste soprattutto l’estrema sinistra. Al proposito a Bersani e compagni si dovrebbe consigliare la lettura dei diari di Bruno Trentin, coi suoi giudizi taglienti su Ingrao, Bertinotti, il Manifesto e compagnia varia, mossi non da un “destro”, ma da un intellettuale che si arrovellava a riscoprire il senso della sua opzione politica marxista.

Al momento è tutto più o meno bloccato intorno a due questioni, che davvero non si possono definire obiettivi strategici. La prima è come pasticciare una legge elettorale da scrivere non con l’intento di incentivare una partecipazione responsabile dei cittadini alla selezione dei propri rappresentanti politici, ma con il fine di favorire le fortune dei vari leader in campo. La seconda è come si porrà la questione della scelta del futuro presidente del consiglio.

Molti commentatori danno per scontato che, in mancanza di un sistema di coalizioni pre-elettorali con previa designazione del candidato premier, la scelta del Presidente della Repubblica non possa cadere che sul leader del partito più votato. Come abbiamo già avuto occasione di spiegare una volta questa tesi è infondata. Se fosse vera Mattarella non avrebbe bisogno di fare il prescritto giro di consultazioni: gli basterebbe leggere le tabelle dei risultati elettorali. Invece deve sentire tutti i partiti con rappresentanze parlamentari per testare due cose: 1) quali sono disponibili a coalizzarsi per formare una maggioranza che possa essere presente in entrambe le Camere (visto che tutte e due devono dare la stessa fiducia); 2) quali siano le personalità sotto la cui premiership i partiti disposti a coalizzarsi concordano di dar vita al futuro governo (i partiti possono fare un nome secco o una rosa di possibili candidati).

Come si capisce questa procedura è complessa e presenta parecchi problemi. Un modo classico per agevolare la scelta del Capo dello Stato sarebbe far diventare il test elettorale una valutazione pro o contro il governo in carica. Soprattutto nel caso di un governo che, come quello attuale, sta ottenendo buoni risultati (ripresa economica, governo dei flussi migratori, qualche intervento di razionalizzazione della sfera pubblica) la soluzione di proporlo al paese per una conferma, almeno a livello di leadership e di alcuni ministri chiave, potrebbe essere naturale.

Così però non è perché Gentiloni non è il leader del suo partito, né conta in esso di una posizione preminente. Il PD ha un segretario di peso ed ha uno statuto che vede nel suo segretario il candidato naturale alla premiership, come peraltro avviene in molti sistemi democratici a base partitica. In più il PD è un partito frammentato, roso dalle tensioni interne e con non poche difficoltà a trovare gli spazi per la costruzione di un sistema di alleanze che gli consenta di costruire un “campo progressista” largo. Il compito se lo è assunto Pisapia, ma non ha la statura e il radicamento per costringere all’ordine un arcipelago di componenti in cui dominano i personalismi e i risentimenti fra vecchi compagni di scuola (politica).

Il risultato è che diventa sempre più probabile che sia il blocco della destra, sia il movimento dei Cinque Stelle possano ambire a conquistare le prime posizioni nella corsa elettorale. Nessuno dei due offre prospettive di buone capacità di governo, ma entrambi sono in grado di sfruttare il disorientamento di una parte del paese che imputa ai governi degli ultimi anni la situazione non idilliaca in cui si trova l’Italia e che fatica a vedere l’inversione di tendenza che si sta verificando.

Certo entrambi negli ultimi giorni hanno scelto atteggiamenti più moderati, incitati dal fatto che una parte dei ceti dirigenti del paese ha fatto capire loro che se si danno una calmata quei ceti possono anche arrendersi all’idea di una loro futura vittoria. Difficile però che possano davvero cambiare pelle buttando a mare i consensi che hanno raccolto negli ambienti più… arrabbiati. Per poterlo fare avrebbero bisogno di raccogliere un consenso elettorale di proporzioni tali da consegnare loro una maggioranza parlamentare assolutamente dominante, tale da non temere contestazioni in parlamento e nel paese, e questo appare molto improbabile.

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