Una battaglia senza pathos

La riforma in discussione non è certo un capolavoro del costituzionalismo occidentale, ma i tempi in cui viviamo sono quello che sono e lo spazio per il pensiero politico in senso forte è piuttosto ristretto

Quella che si sta svolgendo al Senato è una battaglia senza alcun pathos. Interessa solo un gruppo di politici che vogliono sbarazzarsi di Renzi, ma non ha alcuna presa sul paese. Eppure volano parole grosse: tradimento della costituzione, autoritarismo dietro l’angolo, addirittura spettri di antidemocrazia. Sarà che la gente non capisce o che capisce benissimo e dunque non ha alcuna considerazione per la pattuglia dei presunti difensori di una ortodossia che si sono inventati da soli?

La domanda è retorica. Sull’anomalia del bicameralismo perfetto ci sono lamentele e critiche praticamente dal giorno dopo l’approvazione della costituzione. Siccome facciamo gli storici, vi proponiamo un indovinello: leggete la frase seguente e indovinate chi l’ha pronunciata nel dicembre 1948: “Mancavamo di una scienza concreta, di un’elaborazione scientifica. Però perdemmo ancora due anni (1943-1945) e non pensavamo abbastanza e bene, altrimenti avremmo avuto un Senato migliore. I comunisti? I liberali? No, nemmeno noi intendevamo bene ed unicamente una rappresentanza organica. Donde una costituzione scialba, monocroma, dannosa, con eguale potere fanatico del vecchio dottrinarismo del super controllo. Non si può presumere di risolvere problemi estremamente tecnici che esigono un’induzione, non pura deduzione da grandi principi”.

Risposta per chi non avesse indovinato: Giuseppe Dossetti, uno dei padri costituenti. La citazione è maliziosa, non lo neghiamo, vuole solo sfatare l’immagine di difensori della costituzione e della democrazia che si sono cuciti addosso alcuni parlamentari (e, dobbiamo dirlo, alcuni studiosi) che conducono una battaglia politica a difesa di certi interessi di conservazione. Interessi legittimi, purché non vengano contrabbandati come battaglie in difesa dei sommi principi.

Il Capo dello Stato ha giustamente levato la sua voce contro i rischi di questa rappresentazione artefatta del conflitto, consapevole com’è del vicolo cieco in cui infila il paese. La riforma in discussione non è certo un capolavoro del costituzionalismo occidentale, ma i tempi in cui viviamo sono quello che sono e lo spazio per il pensiero politico in senso forte è piuttosto ristretto. Tuttavia far deragliare il convoglio delle riforme è un’operazione suicida.

La situazione del nostro paese è estremamente delicata. La crisi economica non smette di mordere e basta vedere le ultime previsioni. Per uscirne abbiamo assoluto bisogno di ristabilire una ampia fiducia internazionale verso il nostro paese e questa non può arrivare se la classe politica si rivela alla mercé dei populismi di quelli che rifiutano qualsiasi stabilizzazione. Siamo al confine di guerre sempre più pericolose: anarchia in Libia, guerra israelo-palestinese fuori controllo, Siria nel caos, Iraq in buona parte nelle mani dell’estremismo islamico. Mettiamo davanti questa geografia perché, a parte tutto, è un pezzo non secondario di quella crisi che inonda l’Europa di profughi (e le guerre africane che spingono un’altra massa di disperati sono anch’esse collegate a questa realtà).

Poi c’è la questione Ucraina e lo scontro con la Russia di Putin, un altro bel rebus per non dire di peggio. La destabilizzazione in quelle aree significa, tra l’altro, problemi di rifornimento del gas e ulteriore impulso alla crisi commerciale, essendo noi un partner non minore di Mosca. Non sarà una buona ragione per chiudere gli occhi davanti ad ingiustizie e prepotenze, ma gli occhi vanno tenuti altrettanto aperti davanti ai problemi che abbiamo elencato.

La stabilizzazione politica della nostra situazione interna è un obiettivo primario se vogliamo essere in grado di rispondere alle sfide che ci troviamo davanti. Pensare che la si possa realizzare con una sentenza che ha assolto Berlusconi da alcuni reati è illusorio: Berlusconi è e rimane un leader in decadenza, perché privo di una forte proposta politica e perché ha perso qualsiasi credibilità internazionale. Ne sono coscienti anche nel centro-destra, dove sia Alfano che, per opposte ragioni, Salvini hanno declinato l’invito a rimettere insieme l’allegra brigata del PDL.

Troppi pensano, senza ammetterlo, che l’unica via d’uscita sarebbe andare, chiuso il semestre europeo, ad elezioni anticipate. Sarebbe una mossa disperata, perché, nel contesto che abbiamo cercato di richiamare, tutto è auspicabile tranne che restare per un buon numero di mesi nel vortice sbandato di una campagna elettorale inevitabilmente cruenta.

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