Anziano a chi?

L’invecchiamento non è una malattia. I settantenni di oggi sono i cinquantenni di una volta…

Gentile dott. Noro, ho letto su Vita Trentina la posizione di Renzo Dori che ritiene di dover riconsiderare la definizione di persona anziana, arrivando a una valutazione che tenga conto delle condizioni fisiche e psicologiche. Lei è d’accordo con questo punto di vista?

Lettera firmata

Concordo pienamente sul fatto che ci sia la necessità di un cambio dei paradigmi non solo ideologici ma anche organizzativi come conseguenza del nostro invecchiamento. Qualche mese fa ribadivo, in modo provocatorio poiché vi è ancora molta confusione nell’interpretazione di alcuni significati, che l’invecchiamento non è una malattia. I settantenni di oggi sono i cinquantenni di una volta! Considerare anziano un 65enne oggi è anacronistico: a questa età moltissime persone stanno fisicamente e psicologicamente bene, se hanno qualche piccolo acciacco lo tollerano senza troppi drammi e si trovano di fatto nelle condizioni in cui poteva trovarsi un 50 enne una quarantina d'anni fa. Il fenomeno trasformativo è cominciato già “dagli anni Cinquanta” ed è destinato a farci arrivare in pochi anni a un’aspettativa media di vita molto elevata. Ricordo un'indagine presentata alla London School of Economics: due ultrasessantacinquenni italiani su tre dichiarano di non sentirsi affatto «anziani». Quattro su dieci pensano che la vecchiaia inizi davvero solo dopo gli ottant'anni. Peraltro, una ricerca dell’Università svedese di Goteborg dimostrava che i 70enni di oggi sono più "svegli" dei loro coetanei di 30 anni fa: ai test cognitivi e di intelligenza ottengono risultati migliori, probabilmente perché sono più colti, più attivi e meglio curati rispetto al passato. Ma chi sono, allora, i veri anziani? Gli ultraottantenni? Spostare la vecchiaia dopo gli 80 anni è forse troppo ottimistico, ma senza dubbio abbiamo guadagnato una decina d'anni.!

I dati Ocse, impressionanti benché poco guardati, dicono che nel 2050 gli ultra 65enni saranno 74 per ogni 100 persone di età compresa tra 20 e 64 anni (rispetto al 38% di oggi); se nel 2050 l’aspettativa di vita salisse di tre anni, la spesa sanitaria aumenterebbe del 50%. Questo tendenza già in atto ha reso necessario un innalzamento dell’età pensionabile, che dal 2019 sarà spostata a 67 anni e via via si procederà con l’adeguamento all’aspettativa di vita (che oggi supera gli 85 anni). Gli anziani però, più che un problema, potrebbero rappresentare una risorsa. A patto che invecchino bene e che tutelino la propria salute a 360 gradi. Serve quindi un cambio di prospettiva, vale a dire la possibilità di fare dell’invecchiamento della popolazione un modo per preservare la salute e al tempo stesso i conti pubblici. A tale riguardo, in Italia già oggi la percentuale di persone con meno di 70anni ed affetta da disabilità (che è la vera croce) è pari al 10%, quindi il 90% degli italiani si può dire che vivano bene da un punto di vista della salute.

Quando parlo dell’anziano come risorsa da valorizzare mi viene in mente il parere del prof. Bernabei, geriatra dell’Univ. Cattolica di Roma, che affermava con forza: “Andare in pensione a 57 anni è un nonsense dal punto di vista biologico; possiamo discuterne quanto ci pare, ma intanto c’è questo fatto”. Senza togliere spazio alle competenze di economisti o sindacalisti concludeva un suo discorso con un’affermazione piuttosto forte sul futuro della risorsa rappresentata dalla terza età, intesa come “petrolio della società”. Il geriatria si affidava ai dati forniti dalla rivista “Science” nel 2006, a proposito del legame, indagato in tutta Europa, tra età pensionabile e andamento del Pil: “Se continuiamo ad andare in pensione così presto, nel 2025 il nostro Pil subirà un crollo pauroso”. Senza un cambiamento di rotta, dice in sostanza Bernabei, questo magnifico “oro nero” andrà sprecato: “sarà forse un allarmismo eccessivo, ma conviene pensarci”. Ci si può domandare se sia possibile disegnare un nuovo sistema di regole di tipo legislativo, contrattuale, sociale, comportamentale, che favoriscano l’impiego degli anziani in particolari attività lavorative, diverse per impegno e per modalità rispetto a quelle della cosiddetta vita attiva, in modo che vengano incentivati a proporsi e ad accettare di essere coinvolti. Tanto più che la famiglia media del nord Italia è così composta: un figlio, un papà e una mamma, quattro nonni e due bisnonni. Pensare che 6 componenti su 9 della famiglia media siano del tutto inattivi fa intuire come questa mancata valorizzazione delle risorse negli anziani possa pesare sull’economia del Paese.

Tornando invece a ragionare sull’anzianità effettiva, possiamo individuare nei settantacinque anni un’età che in media rappresenta uno spartiacque. Dopo i settantacinque anni infatti la disabilità, la non auto-sufficienza esplode ed esplode con una caratteristica anche questa originale: non si ha solo l’ipertensione, o il cancro della prostata, o il diabete, o la cardiopatia ischemica, bensì in genere si hanno tutte e quattro insieme queste patologie. La normalità, cioè, si chiama «multi-morbilità», nel senso che ognuno di noi a quell’età è portatore di tre, quattro, cinque patologie diverse, che creano un unicum. In aggiunta, la solitudine nella vecchiaia porta dei peggioramenti inducendo vere e proprie patologie somatiche. A scuola di Medicina si studiano l’ipertensione, la cardiopatia ischemica, poi si studia il diabete, poi si studia il cancro della prostata, eccetera, cioè ogni patologia separata dalle altre. Ma un paziente geriatrico di questo tipo, con una mono-patologia in cui un intervento non creerebbe alcuna problematica clinica, non esiste quasi più. Diventa invece sempre più vivo il bisogno di una medicina che sappia interpretare il mondo dei bisogni multipli, contemporanei e complessi di cui la scuola geriatrica si sta facendo interprete. Non possiamo perciò dilapidare la cultura geriatrica. Essa comprende un impegno assistenziale, formativo, etico ed economico. Questo nuovo malato complesso ha bisogno di un mondo sanitario diverso, di una organizzazione di tutela a rete, dove il medico di medicina generale e l’ospedale non siano più i soli baluardi difensivi chiamati a gestire la situazione, ma dove vi siano nel territorio soluzioni diverse, come l’assistenza domiciliare, per le quali sia garantito un elevato grado di approfondimento, condivisione e coordinamento.

*gerontologo e geriatra

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