Quella bambina non era di Gaza

Ad inizio di agosto, in pieno conflitto israelo-palestinese è comparsa sui social network una foto commovente; ritraeva una bambina che, guardando apparentemente spaventata l’orizzonte, copriva con una mano gli occhi della sua bambola. Un noto giornalista, sulla sua pagina Facebook, ha rilanciato la foto accompagnandola con questa didascalia: «Non so se esista un premio fotografico all’altezza di questa fotografia. L’ho ricevuta da una mia lettrice e la ringrazio. È la foto di una bambina palestinese, di Gaza. Guardate bene. Chiude gli occhi della sua bambola, perché non veda la mostruosità di una guerra di sterminio. E’ una fotografia che dovrebbe girare il mondo. Riproducetela. I bambini hanno più umanità dei grandi. I nostri figli dovrebbero farne un poster e metterlo nelle loro stanze. Piango per il nostro egoismo collettivo».

Il commento toccante e la fotografia d’effetto hanno reso immediatamente il post virale e causato la sua condivisione su migliaia di bacheche.

Sembrava un modo intelligente di usare la rete e per sensibilizzare i nostri amici sull’inutilità e il dolore creato da una guerra.

Peccato che… la foto non fosse stata scattata a Gaza ma bensì – 7 anni prima – in Turchia, in un villaggio di montagna vicino Bursa e in un contesto di pace dal fotografo Fatih Özenbaş (http://goo.gl/EyUZNI).

Naturalmente la foto ha colpito anche me. Tuttavia, sapendo che Israele e soprattutto Hamas stavano combattendo anche una feroce guerra 2.0 sui social network per (dis)informare ho provato a cercare in rete qualche riscontro prima di condividere.

C’è voluto qualche giorno per scoprire l’imbroglio e denunciarlo sulla mia bacheca Facebook. Chi ha messo in giro la foto l’ha fatto con l’intenzione di manipolare le persone, per di più utilizzando una bambina. Una cosa tremenda e inaccettabile: usare in modo ricattatorio una bimba per denunciare la violenza sui bambini.

Quello che non mi aspettavo è stata la reazione quasi generalizzata dei miei contatti, fondamentalmente orientata a considerare comunque valida la foto come simbolo di sofferenza e pertanto “utile allo scopo”. Di fatto accettavano la manipolazione, per di più senza esserne preoccupati.

Il mio pensiero, invece, è che una foto viene scattata in un preciso contesto, che gli è proprio e gli appartiene. Una foto è espressione di quel contesto. Decontestualizzarla, piegarla ad altri scopi utilizzandola come "colonna sonora emozionale", è un'operazione profondamente disonesta e intellettualmente scorretta.

Invece, ancora una volta, sembra che la confortante emotività di gruppo del momento – tipica dei social network – sia prevalente rispetto ad una comprensione articolata e ad un sentimento più maturo e profondo. Nonostante tutto, nonostante i mezzi che ormai abbiamo per capire e approfondire, alla fine, vediamo come sempre solo quello che vogliamo vedere. O che vogliono farci vedere.

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