“Amorevoli come madri, fino a donare la vita”

Ml 1,14b-2,2b.8-10;

Sal 130;

1 Ts 2,7b-9.13;

Mt 23,1-12

“I panni sporchi si lavano in famiglia”, ci sentiamo dire, quando vorremmo denunciare una persona a noi vicina, disorientati dal suo comportamento deplorevole. Forse la tentazione di nascondere le malefatte magari dei nostri stessi familiari viene anche a noi, terrorizzati dall’idea che “la cosa” si sappia in giro, finendo sulla bocca di tutti… Così, fingendo di non sentire e di non vedere, copriamo situazioni incresciose e talora così drammatiche da sfociare in vere e proprie tragedie. «Tutti sapevano» è quanto ci limitiamo a dire, quando è ormai troppo tardi per intervenire.

Questa “politica dei panni sporchi” è ben presente anche nella Chiesa, non soltanto nel suo centro operativo, in Vaticano, ma anche capillarmente nelle nostre comunità. Pensiamo sia meglio essere prudenti, non immischiarci, quando siamo spettatori stupiti – per non dire sconcertati – di certe “stranezze” ingiustificabili. L’“istituzione” ecclesiastica in duemila anni di storia si è davvero affinata nel nascondere, tollerare e minimizzare anche veri e propri crimini, compiuti da ecclesiastici di ogni rango ai danni perfino dei piccoli e degli innocenti. Ci sono voluti due papi coraggiosi come Benedetto e Francesco, ad esempio, per combattere in modo credibile, non ipocrita, la piaga dei preti e dei vescovi pedofili. Gli scandali che continuano anche oggi a emergere nella Chiesa sono la punta di un iceberg, la prova che c’è ancora tanta strada da fare.

Spesso mi chiedo: «Se tornasse Gesù sulla terra cosa direbbe a “questa” Chiesa?». Probabilmente, qualche eminente ecclesiastico lo metterebbe subito a tacere, senza lasciargli proferire neppure una parola. Duemila anni fa però è riuscito a lanciare le sue invettive, prima di finire sulla croce.

Nel vangelo di questa domenica il Signore accusa le guide spirituali del popolo di Israele, in particolare gli scribi e i farisei, che “…dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili e li impongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. L’incoerenza tra ciò che si insegna e le scelte concrete di vita, l’eccessiva severità morale, imposta agli altri e disattesa puntualmente a livello personale, sono i “peccati mortali” dell’uomo di Dio.

Gesù continua nella sua analisi spietata, dicendo: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente…». Quando l’ipocrisia, la smania di successo, il desiderio patologico e narcisistico di fare colpo sulla gente e di essere incensato intaccano l’anima di un sacerdote, la devastano, lasciando macerie e desolazione nella sua vita personale e nella comunità in cui si trova.

Il profeta Malachia nella prima lettura rincara la dose, mettendo sulla bocca di Dio il seguente monito contro i sacerdoti: «Se non vi darete premura di dare gloria al mio nome, manderò su di voi la maledizione» e aggiunge: «Voi siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento… io vi ho resi spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo…».

Una via d’uscita ce la offre san Paolo nella seconda lettura, delineando i tratti ideali e inconfondibili dell’apostolo, del sacerdote. Scrivendo ai cristiani di Tessalonica, si lascia trasportare dall’onda dei sentimenti, quando dice: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli».Il sacerdote è chiamato a essere “madre” di coloro che genera alla vita di fede; prova un amore viscerale per quei figli che il Signore gli ha affidato: pensa continuamente a loro, prega per loro, brama di incontrarli, raccoglie nel suo cuore le loro pene e preoccupazioni, gioisce con loro nei giorni di festa, soffre insieme a loro, quando li vede oppressi dallo sconforto, la sua mano benedicente non li abbandona mai, li accompagna fino alla fine, fin dentro le loro tombe.

L’apostolo delle genti continua poi dicendo: «Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari».

Dare la vita. Uno rimane prete, vescovo, finché dona la vita. Solo in questa offerta suprema ha senso la sua identità di persona consacrata e celibe: non genera nella carne, perché continua a procreare nel cuore, vive per dare alla Luce figli. Li concepisce con Dio, con Lui “fa l’amore” nella preghiera e nella meditazione della sua Parola; li partorisce all’ombra della croce, li orienta sulle strade della vita, additando loro un sepolcro vuoto e un Viandante misterioso, che in un’ora di grazia riconosceranno nel gesto dello spezzare il Pane.

Un prete così, un vescovo così, non ha grilli per la testa, perché il suo chiodo fisso è Dio e il suo unico tesoro sono quei figli, che gli sono diventati cari.

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