“Dio o Cesare?”

Is 45,1.4-6;

Sal 95;

1 Ts 1,1-5b;

Mt 22,15-21

Ognuno di noi affronta la vita in modo diverso. Qualcuno si limita a tirare a campare, accontentandosi meschinamente di sbarcare il lunario. Qualcun altro fissa dei punti di arrivo immediati e pragmatici, che gli permettono di risolvere gli inevitabili inghippi del quotidiano, assicurandosi un discreto tenore di vita. Infine, c’è chi si pone degli obiettivi da raggiungere, delle priorità da mettere al primo posto, lasciandosi guidare da ideali alti, nobili e impegnativi, che gli dischiudono prospettive ampie, luminose e appaganti.

Scorrendo il Vangelo e cercando di ricostruire anche i tratti umani di Gesù, notiamo come in tutto il suo modo di essere, il Signore era pervaso da un’idealità e da una grandezza d’animo straordinarie. In particolare, emerge un aspetto affascinante che, in qualche modo, svela tutto di Lui: era un uomo libero. La sua parola era autorevole, perché schietta, per nulla condizionata dai giudizi di chi lo ascoltava; le sue azioni erano motivate da scelte interiori autonome, pensate e progettate nelle notti di preghiera trascorse in comunione con Dio, suo Padre. Era un uomo reso trasparente dalla verità di Dio, che abitava in Lui.

Il vangelo di questa domenica inizia con un patto scellerato stretto tra i farisei e gli erodiani, per tendere lacci a Gesù, per metterlo in contraddizione. I due gruppi erano avversari: i primi si distinguevano per essere osservanti ineccepibili della Legge divina e strenui oppositori dei dominatori romani; i secondi sostenevano Erode Antipa, re fantoccio nelle mani di Roma, totalmente asservito ai desiderata imperiali. Tuttavia li vediamo disposti a mettere da parte dissidi e rancori, a deporre le armi, o piuttosto ad affilarle insieme, per puntarle contro il “nemico comune”, in questo caso l’inquietante predicatore della Galilea che,da uomo libero qual era,non perdeva occasione per criticare l’ipocrisia dei farisei e si guardava bene dall’essere succube di qualsiasi potere, men che meno di quello romano. Dunque, tutto passava in secondo piano di fronte all’urgenza di mettere in difficoltà Gesù, di più, di far fuori quell’uomo così libero e quindi tanto pericoloso.

Gli chiedono: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Cosa curiosa e ancora più strana, lo interpellano su un quesito,a cui loro stessi avrebbero dato delle risposte diametralmente opposte:i farisei, infatti, nel versare le tasse fremevano pensando che con i loro soldi rimpinguavano le casse dell’odiata Roma; gli erodiani, invece, si sottomettevano a questo “dovere” in ossequio al potere imperiale. Dunque, a seconda della sua risposta, affermativa o negativa, si sarebbe inimicato o il popolo,oberato dalle imposte degli invasori, o i romani, che l’avrebbero tacciato di essere un arruffapopoli.

Gesù li spiazza, dicendo loro: «Mostratemi una moneta del tributo», gliela presentano. Aggiunge: «Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?», ingenuamente abboccano e rispondono: «Di Cesare». Allora conclude, sentenziando: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Questo insegnamento del Signore è entrato nel linguaggio comune, diventando un proverbio, usato in modo approssimativo sia dalla Chiesa che dallo Stato, per rivendicare i rispettivi spazi di autonomia e di potere contro ogni ingerenza. In realtà, credo che l’invito di Gesù abbia soltanto lo scopo di offrire a ogni discepolo le coordinate, per orientare le proprie scelte di vita.

In uno scritto dei primi secoli dell’era cristiana, nella Lettera a Diogneto, l’autore, a noi sconosciuto, descrive lo stile di vita dei primi cristiani, definendoli buoni cittadini, persone che conducono una vita normale: lavorano, rispettano le leggi, pagano le tasse, come tutti gli altri. Tuttavia, si distinguono per un aspetto fondamentale: pur essendo persone concrete, con i piedi per terra, il loro sguardo è orientato verso il cielo, lo scopo ultimo del loro vivere e operare è Dio.

Potremmo allora parafrasare l’espressione del Signore, dicendo: «Vivi la tua dimensione di uomo e di cittadino, sentiti parte integrante della società, versa con onestà e senso di responsabilità le tue tasse, impegnati politicamente, lotta, sacrificati per il bene comune ma, nel contempo, ricordati che è Dio il tuo sole nascente, che la tua vita è intrecciata alla sua, che la sua Parola e i suoi valori sono talenti da investire nella vita concreta di ogni giorno, sono occasioni per fecondare di cielo la terra».

Tra l’impegno civile e il primato di Dio non c’è quindi opposizione, ma interazione: come cittadini abbiamo dinanzi a noi il cantiere aperto della società, dove dare il meglio di noi stessi; come cristiani siamo chiamati ad alimentare di grazia le realtà terrene e a spargervi a piene mani il buon seme della Parola, per cambiare il mondo e renderlo migliore.

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