“E se Dio fosse come noi?”

Ez 2,2-5;  Salmo 122; 2Cor 12,7-10;   

Mc 6,1-6

I versetti del vangelo di questa settimana sono in continuità con il brano della scorsa liturgia domenicale. Ci portiamo ancora dentro l’eco dello stupore per il Signore amante della vita, ricolmo della sua energia capace di ridonare l’esistenza alla donna emorroissa e subito dopo alla figlia di Giàiro, ragazza “da marito”, affinché entrambe possano portare a pienezza le loro fecondità. Se abbiamo lasciato delle persone piene di stupore, con quello che possiamo definire in gergo un “lieto fine”, la pagina odierna sembra quasi mettere un freno all’entusiasmo, o perlomeno invitarci a riflettere su alcuni aspetti necessari per accogliere il messaggio di Gesù nella sua piena verità, la quale non può non passare attraverso l’accoglienza stessa di Lui, un Dio umile e rispettoso della nostra libertà, a tal punto – come vedremo – di sopportare anche l’amarezza del rifiuto. L’evangelista Marco oggi ci colloca all’interno della vicenda di Gesù che ritorna nella propria terra, a casa sua e fra la sua gente. Egli ritorna nel paese dove è cresciuto e vissuto a lungo, nel quale si è formato come uomo, imparando un mestiere e intrecciando quella importante rete di relazioni che anche Lui, il Signore, come ogni persona ha dovuto e desiderato maturare per rendere realmente viva e piena la sua esperienza umana. Decidiamo di fermarci un momento su quest’aspetto forse inedito per molti di noi, formati ad un’idea di Gesù Cristo troppo disincarnata, distante dalla sua dimensione di umanità, la quale però è componente irrinunciabile per poterlo comprendere ed accogliere come il “Dio fatto uomo”; come Verbo fatto carne (vedi Gv 1,14) di cui ci pare si conosca più l’aspetto dottrinale che esistenziale. Sostare su quest’episodio ci sembra quasi indispensabile per crescere nella nostra vita di fede perchè, come sappiamo, se vuole essere tale deve prendere a modello la stessa vita di Gesù. Teniamo presente anzitutto come, nonostante l’assenza dei vari mezzi d’informazione odierni, i concittadini di Gesù fossero ben a conoscenza del fatto che un loro conterraneo fosse divenuto un rabbì apprezzato per il suo annuncio profetico, conosciuto anche per esorcismi e miracoli, come quelli narrati poc’anzi. Per ritrovare la sua comunità d’origine si dice che giunto il sabato (Mc 6,2) Gesù si reca in sinagoga. Questa nota temporale lascia intendere che Egli abbia atteso il momento e il luogo più opportuno per ritrovare e riallacciare quelle relazioni che, com’è naturale che sia, aveva particolarmente care. Così come altrove ha portato l’annuncio del Regno di Dio, ora può provare la gioia di condividere la buona notizia con quelli di casa. Questi lo ascoltano e rimangono stupiti; gli attribuiscono conoscenze e sapienza superiori, fanno pure riferimento ai prodigi compiuto dalle sua mani…eppure dallo stupore poco dopo passano allo scetticismo: “Non è costui il falegname?il figlio di Maria?…”(Mc 6,2-3) come a dire che lui è un uomo troppo semplice, modesto, ordinario per poter essere anche un profeta! Viene riconosciuta sua madre e tutta la sua cerchia; ovvero l’origine umile e davvero distante dall’immaginario che loro (come noi) ci si attende da colui che vuole rappresentare l’immagine stessa di Dio! Dove sono la grandezza e la maestà divina? Dov’è la sua autorità? Non stupiamoci per l’incredulità dei nazaretani dell’epoca, poiché il vangelo è scritto per il nostro oggi! Non corriamo forse anche noi il rischio di lasciarci trascinare talvolta più dalle parole e dal portamento dell’uomo apparentemente forte e deciso, capace magari di scaldare le piazze, piuttosto che da un annuncio compiuto attraverso parole e gesti che ci spingono ad alzare lo sguardo verso un Mistero che le oltrepassa? Gesù non solo è rifiutato ma si legge che “era per loro motivo di scandalo” (Mc 6,3) cioè che alle sue parole e ai suoi segni si attribuiscono un’origine oscura e ambigua, cadendo così nell’ombra del giudizio e del sospetto. Egli attraverso il detto “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (Mc 6,4) vuole scuotere i suoi interlocutori dubbiosi: perché hanno abbandonato il loro stupore autenticamente buono quando lo hanno riconosciuto come profeta? le loro resistenze portano all’inganno e non alla verità! Qui ci troviamo difronte ad una consapevolezza importante: se siamo sinceramente alla ricerca del volto di Dio dobbiamo superare le nostre pigrizie mentali ed avere il coraggio, talvolta necessario, di modificare i nostri pensieri per assumerne di nuovi. Il discepolato è continuo cammino durante il quale ci viene richiesto di non arroccarci nei nostri schemi mentali, ma di saper accogliere nuovi orizzonti; la verità del vangelo talvolta ci è scomoda a tal punto che possiamo tradirla, diventando come coloro che il profeta Ezechiele apostrofa come “figli testardi e dal cuore indurito”. (Ez 2,4) Paolo, nella seconda lettura, ci mostra al contrario l’itenerario buono da poter scegliere: nella consapevolezza costante della nostra debolezza possiamo sempre richiedere a Dio la grazia di sostenerci nella fede. Pur non senza un poco di sconcerto per le lotte che dobbiamo ingaggiare con il nostro orgoglio cerchiamo di fare nostre le parole dell’apostolo “quando sono debole è allora che sono forte”, dove poc’anzi ci spiega “perché dimori in me la potenza di Cristo” (2Cor 12,8-10). Gesù, tornando al vangelo, si ascolta che rimase meravigliato dell’incredulità dei suoi, e Marco però aggiunge che continuò ad insegnare nei villaggi all’intorno (Mc 6,6 ). Il suo annuncio è una proposta che attende un’adesione libera e sincera: quant’è grande il nostro Dio!

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