Sempre connessi con il Risorto!

At 9, 26-31;

Salmo 21;

1Gv3,18-24;

Gv 15,1-8

«O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di vita nuova e portiamo frutti di santità e di pace», così la colletta, preghiera liturgica che introduce la liturgia della Parola, sintetizza efficacemente il messaggio biblico della quinta domenica di Pasqua. All’inizio della nostra eucarestia pasquale, noi tutti, cercatori di Dio e discepoli del Risorto, domandiamo ad una sola voce di diventare primizie di vita nuova capaci di fruttificare santità e pace. Ne siamo consapevoli? È ancora possibile oggi credere alla fraternità e alle primizie di vita nuova? Ci vengono in mente le parole lungimiranti di don Giuseppe Dossetti: «I cristiani si ricompattano solo sulla parola di Dio e l’Evangelo! Di fronte alle difficoltà sempre più dovremo, in questa nuova stagione che si apre nel nostro paese, contare esclusivamente sulla Parola del Signore, sull’Evangelo riflettuto, meditato, assimilato. Siamo destinati a vivere in un mondo che richiede la fede nuda e pura. Vivremo sempre di più la nostra fede senza puntelli, senza presidi di sorta, umanamente parlando.» (“Con Dio e con la storia”, coniugi Alberigo, 1986). Di questa fede nuda e pura parla il vangelo secondo Giovanni attraverso l’immagine poetica della vite e dei tralci. La bellezza dell’immagine ci cattura.

Il Vangelo di oggi ci sembra suggerire di piazzarci davanti ad una vigna e di osservare con l’attenzione del cuore perché proprio in quella vite e nei suoi tralci scopriamo i tratti essenziali del volto di Gesù, del nostro essere cristiani e della vitalità delle nostre comunità cristiane. Che bellezza! Certo, ricordiamo che l'immagine della vigna era stato un simbolo più volte evocato nel Primo Testamento per raccontare il rapporto tra Dio e il suo popolo, ma ora, il Vangelo secondo Giovanni afferma qualcosa di rivoluzionario. Gesù stesso è la vite: «Io sono la vite, voi i tralci». Inoltre, si sottolinea che tale vite (Gesù) è davvero sé stessa se custodisce dal di dentro la relazione con il Padre («Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore») e con i suoi discepoli («Io sono la vite, voi i tralci»). Da questa relazione i frutti nuovi. L’agricoltore (Dio Padre), la vite (Gesù) e i tralci (discepoli) sono i protagonisti principali di questo quadretto bucolico, e tutti sono accomunati da una stessa caratteristica: una relazione circolare di fecondità. Gesù è la vite che non attira l’attenzione su di sé, ma indica il suo legame con il Padre e i discepoli. E se il rapporto tra la vite e il vignaiolo è stretto, ancor più quello della vite con i suoi tralci. Dove inizia uno e dove finiscono gli altri? Gesù, dunque, non riesce a pensarsi senza il Padre, ma appare ancor più impossibile senza i suoi discepoli. Si rimane affascinati di fronte a questa dichiarazione d’amore. Questa passione d’amore e desiderio di totalità divengono supplica accorata affinché non venga interrotto il vincolo nutritivo essenziale tra la vite e i tralci, tra Gesù e i discepoli: «Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me». Sappiamo bene che la vite per divenire rigogliosa ha bisogno di tempo e questa attesa richiede fedeltà, fiducia e costanza. Così anche per la nostra vita cristiana. Chi sei discepolo o discepola di Cristo? Un tralcio innestato nella vite (Gesù Cristo) e chiamato a dare frutto (vita evangelica) grazie alla relazione costante e fiduciosa con la vite. La linfa, amore senza misura che scorre tra il Padre e il Figlio, è comunicata ai tralci (discepoli) perché a loro volta siano capaci di far germogliare frutti di un amore vicendevole. È l’amore fraterno a rendere visibile tutto il mistero di un Dio che ha offerto la vita per noi. Il punto di partenza è l’essere e il rimanere discepoli di Cristo. Questo è il primo frutto gradito del Padre: «in questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Il verbo «rimanere», ripetuto sette volte nel nostro Vangelo, ci aiuta ad approfondire maggiormente questa lieta notizia. Siamo di fronte ad un verbo molto caro all’evangelista Giovanni. É un verbo che dice intimità: solo chi ha vissuto un’esperienza di amore può esprimere il senso profondo del «rimanere», di quell’appartenenza reciproca che comunica con gli sguardi e i gesti più che con le parole. Solo cuori appassionati possono comprendere un amore che diviene radice del nostro essere e del nostro agire e non semplicemente ricordo-pensiero-memoria. Che cosa significa allora rimanere in Gesù (vite)? Significa che il suo mondo, «il mondo di Gesù, è diventato il mio mondo, è l'aria che mi fa respirare, è la linfa che pulsa e genera sussulti di nascita, anche in questo ramo apparentemente secco, rinsecchito, che sono io» (A. Casati). Rimanere in Gesù è imparare a vivere come Gesù ha vissuto giorno dopo giorno, attimo dopo attimo. Con fedeltà, sapienza e creatività. Come ci insegna Barnaba (prima lettura) che, tralcio ben innestato nella vite, ha creduto alla vita nuova di Paolo e si è fatto garante di questo prodigio di Dio. Ci voleva molta audacia e fede matura per superare le diffidenze e le paure della comunità di Gerusalemme incapace di accogliere Saulo, il persecutore. Barnaba ci testimonia che se «crediamo nel nome del Figlio suo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato», la nostra vita può cantare i prodigi di Dio anche oggi e parlare del Signore «alla generazione che viene». «Ecco l’opera del Signore»: comunità cristiane continuamente rinnovate dalla linfa dell’amore pasquale di Cristo e coraggiose testimoni del suo amore.

a cura della Comunità Monastica di Pian del Levro

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