Umiltà è saggezza. Presunzione è stupidità.

Siracide 35,15b-17.20-22a;

2 Timoteo 4,6-8.16-18;

Luca 18,9-14

Non c’è modo migliore per far capire le cose che raccontare una storia. Gesù lo sapeva. Per questo era bravo a inventare parabole. Quella della prossima Domenica ha come scenario il Tempio e i personaggi sono tre: il Signore Dio, un fariseo e un pubblicano. I farisei si ritenevano giusti e perfetti: la loro caratteristica più odiosa era la presunzione; non di tutti, a dire il vero, ma si sa com’è: basta quella di alcuni per far fare brutta figura a tutta la categoria. E presunzione è l’illusione di “star sopra” gli altri: per qualità, per bravura, per tanti motivi. È allora che accade di pensare: “io non sono come quelli là – ladri, ingiusti, disonesti, delinquenti…”. L’altro personaggio della storia è un pubblicano, tipico rappresentante di un mestiere che non attirava grandi simpatie: consisteva nel riscuotere le tasse dai cittadini. A quei tempi non c’erano le bollette che arrivavano a casa con la cifra precisa di quello che si doveva pagare; a quei tempi erano i cittadini stessi che dovevano prendere l’iniziativa di saldare i loro conti con il Fisco, recandosi dagli esattori (i pubblicani, appunto). Costoro poi sparavano cifre piuttosto alte, che comprendevano sì il dovuto per tasse, ma anche il loro compenso: infatti lo stato, o chi per lui, appaltava la riscossione delle imposte ai pubblicani, i quali non mancavano di approfittarne spillando più soldi possibile ai contribuenti. La loro nomea era quella di disonesti per mestiere, ladri che rubavano alla luce del sole e con la protezione della legge. La gente li odiava molto cordialmente e riteneva che anche Dio facesse altrettanto; non aveva detto nel 7° comandamento “Non rubare”? Di solito non andavano al tempio i pubblicani: temevano di essere trattati come i “cani in chiesa”, oppure che Dio stesso avrebbe scagliato su loro un fulmine per incenerirli. Questo, del quale ci parla Gesù, rischia di andarci. Rimane in fondo, un po’ nascosto, e prega senza neanche alzare gli occhi: si sente indegno di stare là davanti al Signore. “O Dio, abbi pietà di me: io sono il peccatore!”. La conclusione di Gesù è scioccante: “Costui se ne tornò a casa giustificato – cioè perdonato. Il fariseo invece no: se ne andò tronfio e appesantito dalla sua presunzione!”.

È a noi che, in questa domenica, è rivolta la parabola. Probabilmente vuole insegnarci qualcosa di importante. È come se Gesù ci chiedesse: Voi, che celebrate con generosità la Giornata Missionaria Mondiale, aiutate i missionari e sapete di dover essere voi stessi testimoni del vangelo, a quale di questi due pensate di assomigliare? al fariseo, bravo ma presuntuoso, o al pubblicano, peccatore ma umile? “Io non sono come quello là…” afferma il fariseo. Questa frase mi capita di sentirla abbastanza spesso da persone che di solito non frequentano molto le chiese: “Io non sono come quelli che ci vanno tutte le domeniche, e poi fuori si comportano peggio degli altri…”. Ma questo equivale a rovesciare la parabola. È semplicemente un altro modo farisaico di ragionare. In realtà, ambedue questi personaggi hanno qualcosa in comune: si trovano nel tempio, cioè nella casa di Dio. È l’atteggiamento che li fa diversi: sei presuntuoso, pieno di te stesso? Lo sei sempre: dal lunedì al sabato, e anche la domenica. Sei umile? Lo sei in chiesa e anche fuori, tutti i giorni. Chi è presuntuoso conosce una parola sola: io. Parla sempre e solo di se stesso; gli altri (siano i suoi vicini o i “pagani” del Terzo mondo) li guarda dall’alto in basso. Magari è pur vero che possiede delle belle qualità, delle doti, “ma cos’hai tu che non l’abbia ricevuto in dono? direbbe san Paolo. E allora perché ti comporti come se fosse tuo?”. Superfluo aggiungere che chi è presuntuoso ben difficilmente mette a disposizione degli altri i doni che ha ricevuto. Riconosciamolo: siamo sempre piuttosto esperti a prendere le distanze da quelli che non sono bravi come noi. Non lo diciamo, ma lo pensiamo, e poi i nostri atteggiamenti lo lasciano trasparire. Ho sentito più volte adulti o anziani lamentarsi perché “il mondo è marcio, la società è malata, le famiglie vanno a rotoli”, fino al giorno in cui il marcio o l’andare a rotoli non è capitato a loro: da quel momento han cessato le lamentele e hanno forzatamente riscoperto l’umiltà. Sì, è una merce un po’ rara di questi tempi l’umiltà. Va molto più di moda la presunzione del fariseo che l’umiltà del pubblicano. “Umiltà” viene da “humus”: terra. È stare coi piedi per terra invece che pretendere di volare sopra gli altri. È riconoscere che siamo creature di Dio, che viviamo solo perché lui ci fa vivere istante per istante. Umiltà è sapere che non possiamo vivere senza di lui e neanche fare alcunché di bello e di buono se lui non ce ne dà la capacità. Umiltà è riconoscere che noi da soli siamo più bravi a far danni che cose giuste e buone. Riconoscerlo è umiltà, e dire come il pubblicano: “Signore, abbi misericordia di me!”. Umiltà è saggezza, in fondo. Presunzione invece è stupidità. “Perché chi è presuntuoso sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Il vangelo non sbaglia. Le guerre tra le nazioni, le lotte e le divisioni nella società, nelle famiglie, è la presunzione a scatenarle, non l’umiltà. Chi è umile promuove armonia, pace, comprensione: è davvero intelligente e saggio. E’ perfino potente davanti all’Altissimo. Proprio in questa Domenica infatti ci viene detto che la preghiera dell’umile penetra le nubi e arriva diritta in cielo, fino al cuore di Dio. Perché, allora, non coltivare l’umiltà, dal momento che presunzione ce n’è fin troppa a questo mondo?

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