Donne che contano

Il titolo originale del film e del romanzo da cui è tratto, è Hidden Figures, figure nascoste, ma anche cifre, perché al centro del racconto non ci sono solo tre donne di origine afroamericana, ma tre matematiche, impiegate alla Nasa nel ruolo e col titolo di “computer”, quando i computer ancora non esistevano o erano appena all’orizzonte, e loro facevano a mente e mano i calcoli delle orbite spaziali.

Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tre “coloured computers” al tempo in cui gli Usa combattevano la Russia per la conquista dello spazio, tra fine anni ’50 e inizio ’60.

La storia “vera” è stata tirata fuori dai cassetti da Margot Lee Shetterly, scrittrice di colore pure lei, il cui padre era ricercatore alla Nasa, ed è cresciuta dunque nell’ambiente che racconta. Il libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race (storia delle donne afro-americane che aiutarono a vincere la corsa allo spazio) è stato pubblicato nel 2016 e i diritti cinematografici sono stati acquistati ancora in corso di scrittura. Perché la storia aveva evidentemente tutti i numeri del sogno americano, e anche di più.

Nella conquista dello spazio cosmico, si gioca, infatti, la conquista dello spazio umano per le tre protagoniste di quello che in italiano è uscito col titolo Il diritto di contare (nel libro sono quattro): come donne, in un ambiente scientifico tradizionalmente maschile, come afro nella Virginia segregazionista, all’alba della stagione di grande rivendicazione civile che stava per aprirsi.

Il regista Theodeore Melfi (un bianco, che viene dalla pubblicità), utilizza scopertamente questi registri, contando sulla bravura delle interpreti (Taraji P. Henson nel ruolo della Johnson, Octavia Spencer in quello della Vaughan, Janelle Monáee la Jackson) e sui comprimari, Kevin Costner, per tutti, nel ruolo di coordinatore scientifico del progetto spaziale. Un film di “genere” che miscela più generi – l’impresa spaziale, la rivendicazione razziale e femminile, il biopic – senza un approccio personale o autoriale. Semmai con delle accentuazioni stereotipiche, per rendere più immediatamente riconoscibile a un largo pubblico il genere.

Basta la storia, bastano i personaggi; non a caso in Italia è uscito in sala l’8 marzo (per un caso curioso di rimandi involontari ma significativi, lo scorso anno c’era il documentario su AstroSamantha).

Come Loving di Jeff Nichols che ripercorre la storia e la vertenza contro lo stato della Virginia dei coniugi Loving – lui bianco, lei nera – che negli anni ’50 non potevano risiedere nello Stato segregazionista; come Selma che ricostruisce la grande marcia per il diritto di votare, come La lunga strada verso casa o The Help che riprendono la ribellione di Rosa Parks in Alabama, come moltissimi altri, sono film che rispecchiano anche nei modi lo stile anni ’50 di Hollywood. Sembrano tutti cinematograficamente e tematicamente “superati”. Invece svolgono forse una funzione di rimasticazione culturale per un pubblico che non ha ancora digerito quanto avvenuto. O forse, come denuncia il regista haitiano Raoul Peck nel documentario I am not your negro, Hollywood vuole far credere agli afroamericani di essere parte della mitologia americana per non affrontare veramente il problema razziale.

Ma forse tutte e due le cose, la via dell’integrazione e dell’appartenenza passa anche per il cinema, in un gioco di rimandi tra realtà e leggenda.

vitaTrentina

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