A Medellin Francesco parla ancora di dogana…

A Villaviciencio ha osservato che “basta una persona buona perchè ci sia speranza”. A Cartagena ha ribadito che “la pace si costruisce parlando, non con la lingua ma le mani e le opere”. A Bogotà ha confessato di sentirsi “molto vulnerabile”.

Le omelie di Papa Francesco nel suo recente viaggio sono zeppe di pietre preziose, come le miniere controllate un tempo dalle bande armate in Colombia. Pietre anche dure, scaturite dall'impervio cammino di riconciliazione di quel popolo e dal lavorìo che la Chiesa latinoamericana ha avviato fin dal 1968 nella Conferenza tenutasi a Medellin.

In questa città-simbolo sabato 9 settembre il Papa argentino ha rilanciato al mondo la sua prospettiva di Chiesa in un'omelia tutta da rileggere. L'ha intitolata “La vita cristiana come discepolato” e vi ha inserito a braccio un'espressione che rappresenta davvero una pietra miliare del suo pensiero: “Fratelli, la Chiesa non è una dogana, richiede porte aperte, perchè il cuore del suo Dio è non solo aperto, ma trafitto dall'amore che si è fatto dolore”. “Non possiamo – ha soggiunto – essere cristiani che alzano continuamente il cartello “proibito il passaggio”, né considerare che questo spazio è mia proprietà imnpossessandomi di qualcosa che non è assolutamente mio. La Chiesa non è nostra, fratelli, è di Dio”.

E’ una metafora da periferia urbana, questa della “dogana pastorale”, tanto ricorrente nel linguaggio dell’ex Arcivescovo di Buenos Aires, che egli probabilmente ha voluto usare non solo perchè di dogane chiuse è segnata la storia recente della guerra civile in Colombia. Quest’insistenza va ricondotta alla spiegazione che già Papa Francesco ha offerto nella “magna charta” del suo pontificato: “La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre”, scrive nella Evangelii Gaudium riferendosi poi ai sacramenti: “Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”.

Perchè Francesco a Medellin ha voluto ritornare su quest'immagine-cardine del suo magistero, quasi che anche dopo il Giubileo della misericordia non siano state recepite le conseguenze pastorali di quest'esigenza?

Non abbiamo ancora capito che non siamo dei doganieri, che non dobbiamo perdere tempo a guardare chi merita di stare dentro e chi deve rimanere fuori, che non possiamo permetterci di alzare nuove barriere. La Chiesa in uscita, tratteggiata nella Evangelii Gaudium, trova un approfondimento nelle tre tappe del discepolato indicate da Francesco a Medellin: “andare all'essenziale”, a ciò che conta nella vita; “rinnovarsi”, ovvero considerarsi sempre in movimento, mai arrivati, senza paura del cambiamento; “coinvolgersi”, aiutando gli altri a entrare e avvicinare quel Dio che “comanda di chiamare tutti, sani e malati, buoni e cattivi, tutti”.

L'atteggiamento rigorista e perfettino dei doganieri blocca la tensione di una Chiesa che dovrebbe provare invece a prodursi in uno slancio missionaria, così come – in senso inverso – frena la sua capacità di accoglienza: alla dogana, appunto, ci si blocca, si perde tempo. Stop.

Dall'aeroporto di Medellin planiamo all'Auditorium Santa Chiara, dove sabato prossimo 23 settembre i cristiani sono liberamente invitati a confrontarsi con la richiesta di Papa Francesco: c'interrogheremo sulle condizioni non certo “doganali” con cui relazionarci con gli uomini e la cultura del nostro tempo, con i nostri fratelli. Consapevoli che per tutti il Padre ha preparato una Terra Promessa, una meta da raggiungere insieme, come un popolo assetato.

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