Alle urne con lo spirito del giovane attivista

Dopo un’impegnativa campagna elettorale, domenica 4 marzo il giovane attivista potrà finalmente riposare qualche ora in più. Con la serenità di aver fatto la sua parte per il futuro del Paese e con la speranza di vederlo affidato, a urne aperte, in buone mani.

Anche se qualcuno lo ha tacciato di ingenuità e qualcun altro ha diffuso il sospetto di un tornaconto personale (l’appoggio politico in cambio di un posto di lavoro), il buon giovane attivista non si cura di loro. Ha la coscienza pulita, rispetto a chi lo critica rimanendo alla finestra, perché “sporcarsi le mani” significa comunque prendersi a cuore le sorti degli altri. Ha capito quanto l’indifferenza e il menefreghismo siano un’omissione imperdonabile, voragine sociale che lascia campo libero a chi sfrutta la massa degli ignavi. Ha compreso come sia anche sterile la rabbiosa indignazione di troppi adulti contro un generico “magna-magna”: tutti colpevoli, quindi tutti assolti.

Non si può non scegliere e la sua opzione l’ha fatta, il giovane attivista. Consapevole dell’importanza del discernimento (“non tutte le sigle sono uguali”), si è documentato con letture e incontri, invece che affidarsi ai salotti televisivi del leader di partito o alle pesanti stroncature sulle ali fragili di un tweet.

Non si fidava delle faccine sorridenti sui social ed ha raccolto di persona informazioni sulla storia politica e sul profilo etico dei candidati. Se è vero, infatti, che il Rosatellum sottrae agli elettori la scelta del personale politico (ma il “Porcellum” era ancora peggio), tanto più risulta oggi importante conoscere gli abiti più o meno virtuosi di chi potrebbe rappresentarci in Parlamento. L'identikit? Una persona con la schiena dritta, le mani pulite, lo sguardo aperto sull'Europa e sul mondo, ma anche le competenze necessarie ad una stagione legislativa complicata (non che quella di 5 anni fa fosse facile) e forse decisiva. Dove – per citare solo due evidenze – il debito pubblico cronico invoca uno sviluppo che sia strutturalmente sostenibile e dove la crisi demografica impone interventi trasversali dalla vista lunga.

Il buon attivista (non chiamiamolo militante, termine bellicoso) è nonviolento ed ha imparato dalla campagna elettorale quanto sia becero mirare solo a distruggere i nemici. Con il sano idealismo della giovane età ha cercato di persuadere i colleghi che non si usano mai le armi della demonizzazione degli avversari, magari opponendo loro simboli, anche religiosi.

La sua è stata una campagna all’insegna della partecipazione (“per” e non “contro”), nella quale ha dovuto fare i conti anche con i limiti umani della necessaria mediazione e della democrazia, sempre imperfetta. Ha sperimentato però l’indispensabile e produttiva logica del “noi”; darsi da fare in quella strana forma di carità che può essere la politica ci chiama e ci educa ad un pensare collettivo, ad un respiro comunitario: accettare regole, ragionare anche sulle presunte ragioni degli altri, mirare al bene comune, soprattutto al bene dei più disuguali.

Ma esiste ancora la specie del giovane attivista? , non si è estinta. Forse è diventata una minoranza, ma ci testimonia un senso civico – forse anche una coscienza matura – che ancora ci interpella in modo davvero serio: “La politica non è un gioco”, si sono detti i giovani dell'oratorio di Rovereto, organizzando (anche per gli adulti) una serata di approfondimento ai temi della rappresentanza e dell'informazione alla vigilia del fatidico 4 marzo.

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