Dj Fabo e fine vita, attenti agli equivoci

Quando si vedono le immagini disperanti di un uomo nelle condizioni del dj Fabo a letto, cieco e tetraplegico, a parlare sono soprattutto le emozioni forti, il senso di solidarietà e la nostra stessa paura del dolore e della morte amplificate dalla grancassa del sistema di comunicazione di massa. Non sembra proprio questo il momento per riflettere con pacatezza sulla questione generale e su una eventuale legge sulla fine della vita la cui discussione è programmata in Parlamento.

Eppure lo stesso dj Fabo, prima di farsi accompagnare in Svizzera per essere aiutato al suicidio dove tale pratica non è punita per via di una sorta di escamotage, aveva chiesto pubblicamente una legge sul fine vita. E ora anche i giornali più seguiti, mentre ne annunciano la morte, chiedono l’approvazione di una legge. Ma quale legge?

C’è il rischio di un equivoco e che si confondano i termini della questione. Anzitutto, il caso del dj Fabo esula dal tema della discussione in Parlamento dove si tratta di come dare una regola certa alla possibilità di sospendere o interrompere trattamenti sanitari e del testamento biologico, non dell’aiuto al suicidio o dell’eutanasia, cioè della possibilità di dare direttamente la morte a qualcuno. Oggi disponiamo di strumenti che prolungano la fine della vita di una persona senza procurare miglioramenti significativi delle condizioni di vita. Perciò è sempre più sentita l’esigenza di consentire che, una volta iniziato un trattamento, il paziente possa chiedere al medico di sospenderlo o interromperlo anche se ciò comporta la fine della vita. Può sembrare una distinzione sottile, ma desistere da un trattamento medico e lasciare che la malattia segua il suo corso, non è lo stesso che aiutare una persona a suicidarsi o darle direttamente la morte. Nel primo caso, si permette una gestione dei trattamenti medici più libera e rispettosa senza obbligare chi li ha iniziati a rimanerne prigioniero. Quando invece si chiede al medico di fornire un farmaco letale, che la persona assume per conto suo (assistenza al suicidio) o di dare direttamente la morte, ad esempio somministrando direttamente il farmaco letale (eutanasia), si fa assumere al medico un ruolo inedito. Né è chiaro dove porre un limite, visto che secondo certi orientamenti non occorrerebbe nemmeno provare l’esistenza di una grave malattia con prognosi infausta. Del resto, quando si tratta di vita o di morte non si possono correggere gli errori come ci potrebbe insegnare la storia di Norma Mc Corvey, la donna del famoso caso americano da cui è partita la legalizzazione dell’aborto e che poi, pentitasi, è diventata una appassionata sostenitrice delle tesi pro-life. È morta qualche giorno prima del dj Fabo.

Purtroppo il dibattito tende a ingrigire ogni distinzione e a ridurre tutte le questioni all’idea che ognuno è proprietario del proprio corpo e quindi ha diritto di ottenere che ciò che vuole. Ma il medico non è l’esecutore di qualunque  volontà delle persone, la sua professione è definita da degli scopi e si può ben discutere che tra questi ci sia anche il dare la morte. In Inghilterra, recentemente il Parlamento ha respinto la proposta di una legge che avrebbe previsto l’assistenza al suicidio da parte dei medici. Si è preferito lasciare che i medici rimanessero operatori della salute, non soggetti abilitati a dare la morte. Non sappiamo come andrà a finire in Italia, speriamo almeno che il dibattito non si contamini di quella contrapposizione fra laici e cattolici che di solito impedisce alle ragioni di essere ascoltate, lasciando il campo ai pregiudizi.  In gioco sono valori fondamentale come la solidarietà e la dignità umana. E come li sappiamo interpretare.

Andrea Nicolussi

docente di diritto all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

membro della Comitato Nazionale per la Bioetica

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina