Governo e migranti: lavorare “per”, non “contro”

Sappiamo molto bene come il tema dell’immigrazione, della sua gestione e regolamentazione – e anche delle sue cause, di cui ben pochi parlano – sia complesso e non di facile interpretazione e soluzione. Che quindi la prima preoccupazione di un ministro degli Interni appena nominato sia affermare che “è finita la pacchia per i clandestini” e chiudere i porti, e poi gridare vittoria per questo “nuovo inizio”, non pare un grande segnale di capacità politica e di governo. Per diversi motivi.

Colpisce innanzitutto che uno dei primi provvedimenti di un neonato governo non sia “per”, ma “contro”. Ovviamente non ci stupisce, sappiamo in quali retroterra sono stati sdoganati certi slogan, in quale ignoranza (ben coltivata) è maturata una certa mentalità e anche la situazione caotica dei Paesi europei di fronte a questo fenomeno, preoccupati di rinfacciarsi le colpe invece che trovare una soluzione unitaria e coerente. Ci si poteva comunque aspettare qualcosa che sapesse meno di propaganda politica e un po’ più di sostanza.

Preoccupa anche vedere da parte di qualcuno la necessità di indicare subito dei “nemici”  – i migranti, le ONG, l’Europa – attraverso i quali unire la cittadinanza che, come succede nei peggiori stati totalitari, trova il suo capro espiatorio per i mali che la affliggono, indipendentemente dai dati di realtà che ci dicono ad esempio che l’occupazione non sale con il drastico calo degli sbarchi o che la criminalità sia generalmente in calo.

Ma, al di là delle scelte governative, nel panorama politico nostrano (e non solo ora) sembra continuino a sfuggire  – o si trascurino consapevolmente – alcuni elementi fondanti della governance del fenomeno migratorio. Il problema pare essere sempre il flusso in entrata nel nostro Paese, non quello in uscita da decine di paesi nel mondo. Si continua a ridurre il tema al numero degli sbarchi e non alle cause che mettono in moto centinaia di migliaia di persone.

E, seguendo questa logica, i risultati sono purtroppo estremamente coerenti. Si fanno accordi indegni con la Libia (purchè se li tenga), si accusano le ONG di essere conniventi con gli scafisti, si accusa chi fa accoglienza di speculare, si agita lo spettro dell’invasione (anche se i numeri dicono ben altro), … E alla fine si chiudono i porti. Tutte azioni che tra l’altro potranno rallentare, ma non certo arginare il fenomeno.

Non una parola sulla situazione nei paesi di partenza, sulle miserie da cui fuggono buona parte dei migranti (non solo guerra, ma fame e violenza, catastrofi naturali, povertà e persecuzione), nessun incremento dei progetti di sviluppo e cooperazione in quei paesi (mentre la vendita delle armi vola), nessun “piano Marshall” per l’Africa, …

La domanda che ci dovrebbe inquietare, come umani e come cristiani, è “cosa possiamo fare, qui e ora?”. Si può stare fermi a guardare, convalidando di fatto l’esistente e vedendo nella chiusura verso gli altri un’alba nuova, oppure si può riprendere quanto ha proposto il Papa nel messaggio del 1° gennaio di quest’anno: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Queste sono le azioni che possono aiutarci a sopportare quest’epoca e allo stesso farci sentire parte di una visione più ampia e più fraterna di un fenomeno che ci appare ogni giorno sempre più complesso ma al quale non possiamo essere estranei.

Senza ingenuità, senza cadere in banalità dettate dall’emotività o dall’urgenza, con criterio e regole, ma allo stesso tempo fedeli ad un amore per gli uomini che nessuna legge, nessun divieto può cancellare. Che fa diventare il diritto all’accoglienza un diritto non negoziabile tanto quanto la difesa della vita, la tutela della famiglia, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani, la soddisfazione dei bisogni primari, il diritto al lavoro. Che fa in modo di vedere chi scappa dal suo Paese come una persona e non un numero, che ci fa interrogare se in quei volti non si nasconda ancora una volta il volto di Cristo.

E a quel punto, possiamo decidere se incontrarlo o meno, sapendo che è nell’accoglienza e nella solidarietà (di cui per fortuna ci sono già tanti esempi) che possiamo costruire una comunità vera, un mondo nuovo e ricco di umanità. Un futuro insomma, per noi e per i nostri figli.

Roberto Calzà

direttore Caritas diocesana di Trento

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