Il metodo Trump: divide et impera

Nel valutare le prime mosse del nuovo presidente americano non ci aiuta il gossip mediatico che insiste sul suo ciuffo laccato e sulle smorfie della moglie Melania. Andando oltre la caricatura muscolare del miliardario sempre vincente, ora dobbiamo misurare la persona nel ruolo di statista possiamo pesare le sue scelte e le sue parole.

La storia ci insegna, ci preoccupa. In queste prime due settimane Donald Trump si è mosso ispirato soprattutto dal modello imperialista del divide et impera, dividi e comanda. Come accecato dal desiderio di veder prevalere l'interesse della propria superpotenza e indifferente ai legami d'interdipendenza richiesti dalla globalizzazione, Trump mira a privilegiare i rapporti con i singoli Stati, le intese ultimative: “O con me o contro di me”.

Se gli ultimi decenni hanno dimostrato come la convivenza (e la sopravvivenza) nel pianeta sia legata necessariamente ad una prospettiva multilaterale, egli sembra attirato soltanto da accordi bilaterali. Lo ha dimostrato già dal primo incontro con un leader europeo, non a caso la premier britannica Theresa May (apparsa in comprensibile imbarazzo politico), elogiando la Brexit e immaginando forse un'asse Londra – Washington che ci riporta agli anni Sessanta, quando la meta di una casa comune europea era lontana.

Ma il divide et impera trumpiano è un guantone mostrato al Palazzo di Vetro di New York, una minaccia sferrata contro le Nazioni Unite che hanno cercato in questi anni di far crescere una corresponsabilità mondiale attorno alla risoluzione dei conflitti e alla difesa dei fondamentali diritti umani. Quelli che il presidente americano ha irriso con il bando antislamico selettivo (solo 7 Paesi, scelti non a caso) che porta “il marchio infame” della discriminazione religiosa, come ha denunciato domenica Marco Tarquinio nell'editoriale di Avvenire.

L'ostinazione di Trump, peraltro rivolta in direzioni divergenti, ignora che gli equilibri nel mondo sono cambiati. La sua malcelata strategia del divide et impera si scontrerà inevitabilmente con due blocchi problematici e inediti: la rafforzatissima Cina, con la quale i suoi predecessori, fin dalle mediazioni di Kissinger, erano andati cauti ed il delicato groviglio mediorientale dove qualche taglio netto rispetto al recene passato potrebbe avere un effetto boomerang verso gli Usa ed il loro ruolo finora di mediazione. Ma le ripercussioni del suo esordio “isolazionista” si avvertono anche nel terreno epocale della politiche ambientali planetarie e nella sfera economica dove egli – secondo l'immagine di Leonardo Becchetti – “si muove come un elefante nella già malmessa cristalleria del commercio internazionale”.

Gli americani saranno dalla sua parte? Qui sta, probabilmente, il prossimo futuro. “La maggioranza del Paese non è lui”, ci ha detto da New York nel numero scorso l'osservatore trentino-americano Aldo Civico, aggiungendo che l'elettorato si renderà conto di cosa ha provocato il suo voto e si sveglierà da questo “incantesimo Trump”.

Anche Romano Prodi, nel contributo scritto per i nostri settimanali del Nordes (vedi pag. 18), appare preoccupato e chiama i Paesi europei ad agire uniti. Riconosce che Trump “rappresenta una rottura rispetto ai tradizionali rapporti tra Stati Uniti e Europa” perchè “è arrivato a sostenere che l'Europa è solo uno strumento per esaltare la Germania”. Appunto, la tattica del divide et impera, che i nostri popoli ma anche la coscienza civile americana deve contrastare anche sul piano storico e culturale.

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