Il referendum della porta accanto

La consultazione popolare per una maggiore autonomia della Lombardia e del Veneto, fissata per domenica 22 ottobre, non va snobbata dai trentini, ma considerata con grande attenzione: sia nel dibattito della vigilia che nelle conseguenze del giorno dopo.

Rappresenta infatti una chiamata alle urne, esercizio democratico sempre da valorizzare, che in questo caso è stata richiesta da una già eloquente maggioranza trasversale dei due Consigli regionali.

Per non incappare in vizi procedurali, propone un quesito tanto limpido quanto generico: “Volete voi che alla Regione del Veneto – si chiederà agli elettori veneti (e ai lombardi pure, con parole simili) – siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.

La vittoria dei sì appare scontata, molto meno la percentuale dei votanti. Potrebbe accadere – e sarebbe di fatto un referendum sul referendum – che tanti decidano di non recarsi a votare contestando in questo modo i milioni spesi per i costi referendari: 55 in Lombardia, 22 in Veneto (sarebbero state molti di meno se lo Stato avesse accettato a suo tempo l’election day).

Prende forza, in vari settori del centrosinistra, il giudizio d’inutilità di un referendum che indica obiettivi in teoria già raggiungibili con mediazione parlamentare dopo le modifiche nel 2001 del titolo V della Costituzione: secondo i governatori del centrodestra, invece, un plebiscito avrebbe un forte valore simbolico, farebbe pressione popolare per poter avviare con Roma il lungo iter per un ampliamento dell’autonomia sul quale le due Camere dovrebbero esprimersi con una legge da approvare a maggioranza assoluta.

L’”effetto Catalogna” – peraltro in questi giorni rivelatosi nei suoi aspetti più problematici, sia a Madrid che a Barcellona – non dovrebbe pesare sul voto lombardo-veneto, perché non si parla qui di istanze indipendentiste, che vanno contro l’unità costituzionale dello Stato italiano.

Trento e Bolzano devono soppesare con attenzione quanto accadrà dopo il voto a Milano e a Venezia (e nella provincia di Belluno, dove si tiene un secondo referendum sulla peculiarità provinciale).  Da una parte non devono temere che sia eguagliata nei poteri e quindi “clonata” la propria autonomia speciale (essa è ancorata a un accordo internazionale in virtù della specificità storica), dal momento che Veneto e Lombardia resterebbero pur sempre a statuto ordinario (lo ha ribadito la Corte Costituzionale con una sentenza del 2015, la numero 18); d’alta parte devono capire che questo referendum può innescare un virtuoso processo di ottenimento graduale di competenze che noi abbiamo già, come scuola, sanità, protezione civile… ma che i vicini lombardi e veneti potrebbero meritarsi, ottenendo a questo fine le corrispondenti risorse. Un iter anzi auspicabile, nell’interesse del Paese e nella corresponsabilità fra territori. Questo ci deve stare a cuore – lo affermava già un quarantenne Alcide Degasperi – senza sbilanciare l’unità d'Italia da Nord a Sud, rinfocolando la vecchia “questione settentrionale” a rischio secessionista. Appare illuminante la posizione espressa alla  vigilia dai settimanali diocesani di alcune province interessate dal referendum: “L’ipotesi di un’autonomia differenziata sul territorio nazionale, prevista dalla Costituzione – scrivono i colleghi di Padova e Vicenza –  rappresenta un’opportunità per l’Italia intera che sarebbe il momento di percorrere con coraggio, lungimiranza e chiarezza di obiettivi. La reale valorizzazione delle autonomie può avvenire solo in un contesto unitario e solidale”.

Per questo trentini e altoatesini insieme, devono lasciar da parte atteggiamenti di superiorità o primogenituira, ma comprendere che una corretta e proficua gestione delle competenze autonomiste è anche un servizio al Paese; al contrario, sprechi e chiusure egoistiche alimentano diffidenze e divisioni.

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