Il vero dono non vale per soli 12 mesi

Nello slalom confuso di macchine al mattino presto, fra guidatori al telefonino intenti a parlare chissà con chi, incuranti degli studenti sulle strisce pedonali, fra i furbetti della “freccia all’ultimo momento” per saltare l’ingorgo che si è formato come un rito irrinunciabile, la voce giovane, suadente e brillante della pubblicità della radio propone le sue sicurezze. “Con un abbonamento di soli 29.90 euro accontento per Natale mia moglie con il cinema, mio figlio con i cartoni animati e poi vedo anch’io la partita ogni domenica”. E con uno scioglilingua degno di un recordman dello slogan conclude: “Affrettatevi: offerta valida per soli 12 mesi”.

Non so se sorridere o preoccuparmi. Il Natale ridotto a consumo o peggio a omologazione. Per questo sorrido: sono per natura ottimista e vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, al limite dell’illusione, pensando ingenuamente che non tutti saranno così convincibili. Ma mi preoccupa questa generalizzazione, questa mancanza di personalità e di attenzione nel pensare a un dono per una persona a cui si vuole bene. Evito il solito veloce commento: “E’ tutta colpa del consumismo”. È una riflessione troppo frettolosa, troppo scontata, troppo autogiustificatoria, a meno che non pensiamo di non avere più in mano il nostro futuro, la nostra possibilità di scelta, la nostra identità.

In un ipotetico referendum mi schiererei con fermezza dalla parte del “dono”: il dono è attenzione per l’altro, è meraviglia negli occhi dei bambini, è tenerezza nello sguardo di mia madre, è, ancora, un abbraccio forte di mia moglie, è un modo di farsi vicino, è una parabola di insperato, è allegria e spensieratezza, è avvertire un po’ di felicità, è stupore. Ma ha prerequisiti importanti: conoscenza, gratuità, gioia, premura.

Attenzione, però: ho detto dono e non regalo. La differenza non è da poco. Abbiamo relegato la nostra capacità di amore, di stima, di riconoscenza a gesti vuoti o, alle volte, dannosi. Ricordo ancora alcuni annunci di matrimonio con questa imbarazzante postilla: “Se pensate ad un dono per noi, vi chiediamo di destinare una parte ai poveri e solo una parte per il nostro viaggio alle Maldive (in basso il nostro conto corrente)”. Nulla contro le Maldive, o il viaggio “Coast to Coast” o il Nepal: è bello regalare un viaggio, offrendo agli altri una possibilità di guardare e conoscere il mondo. Ma un dono ai poveri, per non essere offensivo, presuppone un’altra visione della nostra vita. Presuppone attenzione alla sobrietà, alla giustizia, alla condivisione, che per crescere, maturare e diventare frutto da donare, necessita di semina attenta e costante.

Nel 1996 la Caritas Diocesana proponeva un opuscolo (una delle tante occasioni mancate) andato a ruba anche a livello nazionale, dal titolo intrigante: “Questione di stile… di vita: un mondo più giusto incomincia da te”. E declinava al proprio interno una serie di stimoli, di proposte, di modalità di vita imprescindibili per un cambio di rotta personale e collettivo: volontariato, bilanci di giustizia, consumo critico, educazione alla mondialità, progetti di autosviluppo, fino al controllo del mandato elettorale. Non sono certo mancate le parole, ma non abbiamo fatto nascere luoghi di speranza, a partire dalla famiglia, dalle parrocchie, dalle associazioni, dove fare crescere questo seme gettato nel terreno della nostra vita. Stiamo attraversando un periodo di “qualunquismo colto” e di una retorica roboante e gridata che sembra far diventare vere le cose, senza mai affrontarle con il passo lento della condivisione reale.

Per fare un dono vero bisogna prendere esempio da un uomo e una donna, Giuseppe e Maria, che sfidando il perbenismo, l’incomprensione di tutti, la ferocia dei potenti, si aprono alla tenerezza e donano la loro stessa vita per aprirci al mistero di quel bimbo Gesù, che instancabilmente e cocciutamente rinasce ogni anno per indicarci una via, quella del dono della verità, della coerenza, della semplicità, dello stupore di un amore infinitamente possibile e necessario.

Paolo Rasera

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