Un popolo in cammino verso qualcosa che sa di eternità

La domenica della nostra infanzia era, ovviamente, all’oratorio; ci si andava con gioia, con la speranza di una partita a pallone o a calcetto (dieci palline per dieci lire), con l’attesa del film d’avventura in bianconero dalle immagini un po’ sfuocate, in tasca qualche risparmio da spendere in rotelle di liquirizia e “ciunghe” alla menta. Ma prima c’era il catechismo: la sala affollata, riempita in gruppi distinti fra maschi e femmine, risuonava del brusio di commenti, piccoli scherzi e parole che non si potevano dire, fino a che il giovane cappellano, dalla sua cattedra, non intimava il silenzio che otteneva in meno di un secondo. Begli anni? Non lo so, ogni epoca ha la sua storia, la nostalgia non serve e il tempo, tutto il tempo della nostra vita, va vissuto in pienezza e con riconoscenza.

Ma di lui, di don Ivo, mi ricordo l’enfasi e la convinzione nel raccontare la vita dei santi.

Le loro storie attiravano la nostra attenzione, ma allo stesso tempo incutevano paura e la consapevolezza di una condizione quasi irraggiungibile. Ricordo, come ora, la storia di san Lorenzo. L’immagine non era delle migliori: il martire sulla griglia, girato da una parte all’altra, più volte. E don Ivo insisteva: sudava nel raccontare e si asciugava con il suo enorme fazzoletto a scacchi le gocce che colavano dalla fronte al collo e dal collo sul colletto in plastica e da lì sulla tonaca nera. Noi eravamo sbigottiti, senza saliva: ci sembrava di vedere bruciare il corpo di san Lorenzo e sentire i suoi lamenti, ci spaventavano le risate beffarde delle guardie. A quel punto don Ivo concludeva la sua narrazione, come peraltro tutte le altre volte, con il suo monito: “Così si diventa santi!”. L’unica salvezza per noi era la campanella di fine dottrina che ci riportava alla gioiosa realtà della nostra infanzia.

Non gliene faccio certamente una colpa; i tempi e la pedagogia, ahimè, erano quelli e credo ancora che la sofferenza e il martirio siano una dimensione inconfutabile della santità.

Ma conosco anche Sofia (così la chiamerò per pudore nel parlare di lei pubblicamente) da più di vent’anni. Conosco Il suo peregrinare da una clinica all’altra, sempre con il sorriso stampato sulle labbra e una volontà incredibile per vivere ogni giorno dando il meglio di sé e dispensando sorrisi e frasi ironiche a chi le sta attorno, con la stessa indomabile forza con cui combatte battaglie in favore della dignità della persona. Conosco chi parla solo con il sorriso perché il resto del suo corpo non risponde più agli impulsi della mente, conosco persone afflitte da una malattia che regalano dolcezza fino all’ultimo giorno. Conosco l’instancabile desiderio di vita della gente comune, conosco il coraggio di chi ha rinunciato a tutto per far studiare una figlia, conosco uomini e donne che vivono, con fedeltà, il patto di un matrimonio fallito, conosco persone che attraversano il mare per scorgere un barlume di vita. Conosco chi dà il meglio della propria intelligenza e della propria ricerca personale senza aspettarsi denaro, ma solo perché questo mondo possa continuamente migliorare ed essere più bello e solidale, conosco madri che guardano con tenerezza il loro bambino, comunque esso sia, e conosco padri che fanno anche da madre e madri che fanno anche da padre.  Conosco un prete che nella solitudine continua la sua missione con coraggio e conosco missionari di cui ci ricordiamo solo ogni tanto. Conosco artisti che fanno più bello il mondo.

E dietro a loro e insieme a loro, madri e padri, fratelli e sorelle, donne e uomini, amiche e amici che li accompagnano nel silenzio e con lo sguardo segnato da un amore profondo e senza fine, un popolo di donne e di uomini in cammino verso qualcosa che sa di eternità.

Non è forse questo che ci viene chiesto: di essere felici, nonostante tutto, instancabilmente, al di là anche del buio dei giorni di tristezza?

E non ci è chiesto forse ancora, per essere santi, di rimettere al centro l’essenza della vita?

Tutta questa umanità non avrà uno stendardo appeso in piazza S.Pietro a Roma per la sua santificazione, ne sono certo. Ma sono anche sicuro che, nella collezione di immagini che il buon Dio tiene con cura nel “Suo” libro dei santi, la loro foto non mancherà e che l’abbraccio, nell’incontro finale, sarà grande, riconoscente e infinito.

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