“Beati!”

Sof 2,3; 3,12-13;

Sal 145;

1 Cor 1,26-31;

Mt 5,1-12a

Se qualcuno a bruciapelo mi chiedesse: “Cosa ti aspetti dalla vita?”, non esiterei a rispondergli: “La felicità” e non sarebbe certo una battuta originale, perché credo che tutti noi risponderemmo nello stesso modo.

Ogni persona istintivamente cerca di essere felice, si adopera senza sosta per aggiungere al variopinto mosaico della sua esistenza qualche tassello di intima gioia.

Iniziare ogni nuovo giorno con un animo sereno, affrontare i nostri impegni con costanza, cercare di risolvere con fiducia le difficoltà che incontriamo diventano la cartina tornasole di questa aspirazione a una vita riuscita.

Il vangelo delle beatitudini, che ascolteremo questa domenica, ci parla proprio di felicità.

Sono le prime parole di Gesù, il suo programma, l’essenza della sua lieta notizia, un insegnamento scaturito dal suo cuore per dirci ciò che vuole per noi: renderci felici.

Le beatitudini sono una delle pagine del vangelo che più ci attrae ma, nel contempo, ci appare nei suoi contenuti a una distanza siderale dalla realtà concreta, dal modo di comportarsi e di concepire la vita oggi.

Il Signore sale sul monte e da quel nuovo Sinai consegna alle folle la nuova legge, la dichiarazione d’amore di Dio rivolta all’intera umanità. Ognuno di noi sa di poter essere beato, se si lascia trasformare da queste parole.

In quel momento solenne si sono annullate le distanze fra l’uomo e Dio: Cristo, il nuovo Mosè, è diventato il punto di convergenza, la sua parola ha assunto un’autorevolezza divina, non può essere fissata, quasi imprigionata, su due tavole di pietra, perché come fiume in piena scende a valle per fecondare la terra, come eco riecheggia in ogni angolo del mondo, come vento scuote ogni coscienza, come luce avvolge e illumina ogni cuore.

Nove volte il Signore ripete la parola “beati”, ossia felici.

Si rivolge in primo luogo a chi soffre: i poveri, gli afflitti, gli affamati, i perseguitati, coloro che vengono insultati.

Nasce in noi un interrogativo che ci assilla: come possono gioire i sofferenti? non è forse una contraddizione in termini? Agli occhi dell’uomo della strada, di chi vive immerso in questo nostro tempo, questa pagina di vangelo non sembra una buona notizia, ma un’utopia, destinata a illudere gli ultimi di questo mondo.

San Paolo nella seconda lettura ci offre una chiave di lettura, quando dice: “… quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti;”.

Le beatitudini, il cuore del vangelo, ci svelano il pensiero alternativo di Dio, che predilige cuori svuotati d’orgoglio per riempirli di cielo, occhi bagnati di pianto per rasserenarli con parole di consolazione e coscienze umiliate dai potenti di turno per corroborarle con il dono di una nuova dignità.

Sia chiaro, Gesù non fa l’elogio della rassegnazione di fronte ai drammi e alle sofferenze dell’umanità, ma annuncia l’impegno di Dio, il suo scendere in campo, per assicurare a tutti il diritto di essere felici, come ci ricorda il salmo responsoriale: “Il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri”.

In secondo luogo chiama beati coloro che praticano le virtù della mitezza, della misericordia, della purezza e della pace.

Il profeta Sofonia nella prima lettura si rivolge a un “popolo umile e povero”, a un “resto d’Israele”, e lo esorta a “cercare il Signore”.Questo invito lo vogliamo fare nostro. Come singoli e come Chiesa avvertiamo l’urgenza di far parte di questo resto d’Israele, che cerca il Signore, che non si dà pace finché la sua lieta notizia non s’incarna in scelte concrete.

Consapevoli d’essere spesso irrisi ed emarginati da una società di persone sempre più sole, egocentriche e tristi, ci sentiamo felici di testimoniare la mitezza lì dove regna la litigiosità, lo scontro e la prevaricazione; ci prodighiamo con generosità nel costruire “artigianalmente” la pace, stringendo nuove relazioni, purificate da ogni forma di gretto interesse o, peggio, di bieca ipocrisia; ci impegniamo con costanza ad accogliere in un abbraccio di misericordia coloro che ci hanno offeso e umiliato;infine,vigiliamo affinché il nostro sguardo e il nostro cuore rimangano puri, liberi dall’ebbrezza del possesso dell’altro, della sua vita e della sua dignità.

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