Conci spiega l’amore per la montagna

“L’amore per la montagna – come ogni amore – ha una dimensione fortemente personale. Ognuno di noi lo declina in modo diverso. Il motivo sta forse nel fatto che si tratta di un’esperienza originaria dell’avere un fine. C’è qualcosa che ci attira, qualcosa che ci manca”. E’ partito da qui il prof. Alberto Conci, storico della filosofia, docente di religione al Liceo da Vinci, aprendo uno degli incontri meno commentati ma più intriganti nella riflessione del Film festival intitolata “Montagna a luci rosse”. Un titolo leggero, in verità “pesante”, perché dedicato appunto alle relazioni e alle pulsioni che la montagna proposta, promossa e veicolata.

In dialogo con la presidente della SAT Anna Facchini, Conci si è appoggiato al pensiero del filosofo Theilard de Chardin per parlare dell’amore per la montagna come di un’esperienza “universale e misteriosa”. Non è riservata agli alpinisti, “prende” anche chi vede la montagna da lontano. Non vuol dire allora possederla, salirci per forza, viverla come un’impresa estrema. Il potere attrattivo della montagna nasce spesso da un’asimmetria, dalla percezione della propria fragilità di fronte a qualcosa di immensamente più grande di noi: “Sono uno scheletro con la pelle attorno”, ha scritto un grande alpinista.

Ma vale anche per Mosè sulla montagna, che non potrà vedere il volto di Dio, ma dovrà nascondersi, riconoscendosi molto più piccolo del suo Signore.

Un secondo elemento è l’amore per la montagna come aspirazione all’eternità: abbiamo la consapevolezza che le vette ci sopravvivono. Noi passiamo, loro restano. “Prima o poi il pensiero va a chi ha messo i piedi e le mani su quelle stesse pietre – ha osservato – lo osserviamo spesso percorrendo le trincee”. Da qui nasce anche un bisogno di lasciare un segno, una scritta, qualcosa che ci sopravviva. “Nell’amore poi c’è sempre l’esperienza del limite, dimensione costitutiva dell’amare. Quando amiamo qualcuno, mettiamo in conto delle limitazioni”. Ecco che il ritorno alla montagna può essere visto come il tentativo di ritrovare quel limite, e provare a superarlo. “Vi torno dopo una sconfitta, o dopo una malattia…”.

Conci ha osservato che talvolta si parla di conquista della vetta, come fosse qualcosa di cui diventare padrone, possessore. Il grande scalatore Kammerlander scrive invece che “la cima ti appartiene solo quanto torni a valle; prima sei tu che appartieni alla montagna”.

Il docente trentino si è soffermato anche sull’esperienza del silenzio (“l’amore ha molti vuoti, non serve dirsi tutto”), il silenzio della solitudine o della salita (“il rumore dei passi sul sentiero ti rende presenti gli altri”). E poi sulla felicità (“Noi amiamo ciò che ci rende felici”) e sull’ospitalità: “In montagna ci si sente ospiti e nello stesso tempo possiamo ospitare. Sappiamo che non è casa nostra, ma nello stesso tempo abbiamo possibilità di concedere ospitalità”. Infine, la montagna come luogo in cui passa l’amore tra le generazioni, tra i padri e i figli: “Ci si educa sempre reciprocamente. Il primo amore per la montagna passa dai genitori, da quel giorno in cui ci hanno fatto mettere le mani su una roccia…” Infine anche una statistica secondo cui l’ambiente della montagna genera anche una capacità maggiore di condividere la fatica (e la gioia) di una relazione affettiva.

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