Egitto, la pistola fumante

Rete Disarmo chiede al governo di interrompere la fornitura di armi usate per la repressione interna

Chi ha ucciso Giulio Regeni, il ricercatore italiano, originario di Fiumicello in provincia di Gorizia, 28 anni, al Cairo per ragioni di studio (si occupava di diritti del lavoro, sindacati, movimenti)? Chi ha fatto scempio del suo corpo, torturato fino a provocarne la morte – sopraggiunta con lentezza, dicono le prime risultanze dell'autopsia eseguita in Italia? E' tra il 25 gennaio, data della scomparsa, e il 3 febbraio, data del ritrovamento del corpo, che bisogna indagare per risalire alla verità. Che non sarà facile da trovare, come ha ammesso il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni. Mentre anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiesto che “attraverso la piena collaborazione delle autorità egiziane, sia fatta rapidamente piena luce” sulla vicenda.

“Bisogna passeggiare per le vie di Fiumicello – il paese natale di Giulio Regeni – per capire come, in fondo, Il Cairo non sia così lontana come ci aspetteremo da questa cittadina della Bassa Friulana”, racconta Mauro Ungaro, direttore della “Voce Isontina”, il settimanale della diocesi di Gorizia cui appartiene Fiumicello. “Nel suo paese, fra la sua gente – prosegue Ungaro – Giulio aveva probabilmente appreso la lezione più grande: per imparare la storia bisogna partire dalla storia quotidiana delle persone. Sapendo ascoltare le loro parole e i loro silenzi. E' quello che ha cercato di fare anche in Egitto, pagandone le conseguenze sino alla morte”.

“Il corpo di Giulio oggi ci parla di giornalisti imbavagliati e torturati, di decine di migliaia di attivisti – musulmani e laici, senza distinzioni – arrestati sotto il regime di Al Sisi, di almeno un torturato su quattro che viene ucciso”, scrive Rete Disarmo in un comunicato, ricordando che, nonostante le pesanti violazioni dei diritti umani operate dalle autorità egiziane e la sospensione delle licenze di esportazione verso l’Egitto di armi e materiali utilizzabili a fini di repressione interna decretata nell’agosto del 2013 dal Consiglio dell’Unione europea, l’Italia ha continuato a inviare armi in Egitto.

“Nonostante questa decisione non sia mai stata revocata – commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (OPAL) di Brescia e collaboratore di Unimondo – l’Italia non solo nel 2014 ha fornito le forze di polizia egiziane di 30mila pistole, ma nel 2015 ha inviato in Egitto altri 1.236 fucili a canna liscia”. “Di fatto – prosegue Beretta – l’Italia è l'unico paese dell'Unione europea che, dalla presa del potere del generale al-Sisi, ha inviato armi utilizzabili per la repressione interna all’Egitto”.

Rete Disarmo ha chiesto al governo Renzi di rispettare la decisione del Consiglio dell’Unione europea sospendendo l’invio all’Egitto “di ogni tipo di arma e di materiali che possano venire impiegati per la repressione interna”.

Una repressione che Amnesty International denuncia da tempo, insieme ad altre organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch. Da quando il generale Al Sisi è salito al potere, le organizzazioni per i diritti umani hanno registrato centinaia di casi di sparizioni e oltre 1700 condanne a morte, quasi tutte ancora non eseguite. “La tortura è praticata abitualmente nelle stazioni di polizia e nelle carceri, compresi i centri segreti di detenzione”, ricorda Rete Disarmo. “La libertà d'espressione e manifestazione pacifica è pesantemente limitata e i difensori dei diritti umani e i giornalisti subiscono persecuzioni e processi irregolari”.

Ma il caso Regeni non è l'unico. Lunedì 8 febbraio si è aperto al Cairo, scrive Nigrizia, il processo ai presunti assassini di Eric Lang, un francese morto nel Commissariato di polizia di Qasr el-Nil, al Cairo, nel settembre 2013. La sua vicenda presenta preoccupanti e inquietanti analogie con quella di Giulio Regeni.

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