La porta aperta

La Chiesa, dice, deve amare il mondo e conoscerlo. Per questo i “suoi” seminaristi li ha mandati sulle strade… e perfino in malga

I “suoi” seminaristi l'hanno salutato con una bella festa. Lo stesso ha fatto sabato scorso l’unità pastorale di Sopramonte, Cadine, Baselga e Vigolo sulle pendici del monte Bondone, dov’era collaboratore pastorale. E’ il tempo dei saluti, dei congedi per don Renato Tamanini, settant’anni il primo novembre prossimo, rettore del seminario diocesano negli ultimi 15 anni. In questi giorni, confessa, un passo biblico lo accompagna più frequentemente: l'immagine dei discepoli di Emmaus che, dopo l'incontro con Gesù, tornano alla loro comunità, sfiancata e dubbiosa, di Gerusalemme. “Mi identifico con questa immagine, non perché dove andrò troverò una comunità stanca, ma perché per me è un ritorno a una comunità più ampia, rispetto a quella 'selettiva' del seminario”. Pur impegnatissimo nel trasloco, don Renato accoglie di buon grado l’invito a tentare un bilancio di questa esperienza a servizio della Chiesa trentina.

Don Renato, che seminario lascia?

“L’impianto resta quello che ho ereditato. Con qualche passo in avanti, come il riconoscimento del percorso di studi, che non è un aspetto secondario: con la nascita dello Stat (Studio teologico accademico di Trento, ndr) i seminaristi concludono gli studi con il baccalaureato, riconosciuto in tutte le università pontificie. E poi l’apertura ai laici”.

Altre novità?

“La presenza dello psicologo: un sacerdote psicoterapeuta che affianca con un’opera di discernimento i seminaristi (senza alcun obbligo)”.

L'edificio del seminario negli anni della sua direzione è stato ristrutturato, non è più solo la casa dei seminaristi: ora ospita il soggiorno per i preti anziani, lo Stat… quale idea ha mosso questo rinnovamento?

“Farne un luogo centrale in diocesi di incontro e di formazione. Sono migliaia le persone e i gruppi che vi passano ogni anno”.

Quanti ragazzi sono passati in questi anni? Alcuni sono arrivati al sacerdozio, altri hanno scelto strade diverse, senza drammi.

“Non so quanti siano passati di qui. So quanti sono diventati sacerdoti: ventotto”.

Una media di due all'anno.

“Sono pochi… e sono tanti. In seminario i ragazzi vengono per fare discernimento. Non è una sorpresa che uno lasci o sia invitato a lasciare. L’anno scorso abbiamo avuto quattro abbandoni. Ma il seminario funziona quando c’è gente che va avanti e gente che si ferma”.

Ora ne sono arrivati quattro di nuovi.

“E’ un bel segno. Provengono da paesi diversi, da esperienze personali diverse. Credo che molto influisca la pastorale giovanile”.

Cosa significa “seminario aperto”?

“La Chiesa deve trasformarsi, deve andare al passo coi tempi, deve amare il mondo e conoscerlo. In seminario non è che facciamo cose straordinarie. Ma tutti i seminaristi, dopo il primo anno, passano il fine settimana in parrocchia. Due di loro hanno fatto servizio in carcere. Partecipano a varie iniziative, come il Capodanno con le persone senza dimora o l’evangelizzazione in strada. Sono messi a contatto con la vita”.

Qualcuno ha pure fatto un'esperienza estiva in malga…

“Non per il desiderio di guadagnare, ma per vivere a contatto con la natura, sperimentare la fatica del lavoro, aprirsi all’accoglienza delle persone e trovare spazi di riflessione e di preghiera”.

Qualche altra esperienza significativa?

“Uno dei nostri seminaristi ha passato due mesi in una piccola comunità di preghiera sul lago di Garda”.

In questi 15 anni la Chiesa trentina è cambiata?

“La Chiesa sta ponendo con forza il tema della centralità di Gesù Cristo e della Parola. Papa Francesco ha dato un contributo significativo in questa direzione”.

Un passo indietro?

“Direi il pericolo di puntare esclusivamente sulle attività interne alla Chiesa, catechesi e sacramenti, senza avere una presenza più significativa e capillare dentro la vita della società. Ci sono dei tentativi, ma non è questa la fisionomia della Chiesa oggi”.

Quale parrocchia sogna di costruire insieme ai laici, uomini e donne?

“Uno degli obiettivi fondamentali è quello di costruire comunità. Mi piacerebbe una comunità dove si vive bene, dove tutti sono accolti e possono sperimentare simpatia e amicizia. E una comunità aperta, che si sente partecipe del mondo”.

Della sua esperienza missionaria (in Bolivia dal 1983 al 1989) cosa ha portato in seminario e cosa porterà in parrocchia?

“La musica! Scherzo… Della missione quello che mi porto dentro è la necessità di capire le culture, senza giudicare troppo facilmente. In parrocchia vorrei portare l’amore per la Parola di Dio”.

Lei ha seguito anche un gruppo di separati e divorziati. Cosa le ha detto quest'esperienza?

“Non ho mai colto la pretesa di modificare le regole, piuttosto la consapevolezza di essere una parte viva della Chiesa. Sono situazioni da affrontare con attenzione e delicatezza”.

Situazioni rispetto alle quali c'è dibattito, anche in vista del Sinodo sulla famiglia. Lei cosa si aspetta?

“Personalmente sono più favorevole alla posizione dei vescovi del Vorarlberg (Austria), che alcuni anni fa avevano sottolineato l'importanza da dare alla coscienza personale, accompagnata dal confronto con il sacerdote. Vedo che prevale oggi la richiesta di seguire la disciplina della Chiesa ortodossa”.

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