Piantare noci in zone marginali

Caritro finanzia uno specifico progetto triennale. Per dare gamba all’idea serve impegno tecnico ed organizzativo

Sulla pagina “Agricoltura per tutti” di Vita Trentina di domenica 15 novembre 1981 si poteva leggere un nostro articolo di apertura intitolato “Poche noci per fra Galdino”. Riferiva i contenuti e le conclusioni di un convegno promosso dalla Camera di Commercio Industria Artigianato di Trento riguardante il rilancio sul territorio provinciale del castagno e del noce. Oggi, come ai tempi de “I Promessi Sposi”, ma anche nei primi anni ’80 del secolo scorso, la produzione di noci era ed è ridotta al minimo. Attualmente nei comuni del Bleggio (Giudicarie Esteriori) la quantità di noci prodotta si ferma a 150-200 q.li.

Tre le conclusioni emerse dal convegno del 1981:

1. Castagno e noce possono dare un reddito integrativo nelle zone di montagna. 

2. Il servizio di assistenza tecnica dell’ESAT, sostenuto dalla Stazione sperimentale agraria e forestale di S. Michele, può svolgere una preziosa opera di informazione e promozione anche per il reperimento del materiale vivaistico, oltre che nelle varie fasi di coltivazione. 

3. La commercializzazione ha bisogno di concentrazione della produzione, possibilmente appoggiandosi a magazzini frutta già esistenti.

Dario Pallaoro, al tempo funzionario dell’Assessorato provinciale all’agricoltura per la frutticoltura, interpellato a conclusione del convegno sulle reali possibilità di rilancio della nocicoltura, faceva presente con rammarico che poco riscontro aveva avuto nel decennio precedente un’azione di promozione e di sostegno presso la popolazione del Bleggio portata avanti per 8 anni con vari interventi da parte della Provincia di Trento. Non solo di consulenza, ma anche e soprattutto finanziari. L’abbandono della noce bleggiana era infatti iniziato ancora negli anni ’60, come risulta da un censimento dell’epoca che aveva costatato la presenza in zona di 10.000 piante in produzione ma in buona parte abbandonate e considerate solo al momento della raccolta. 

Alla cronaca del secolo scorso si contrappone quella recentissima di un convegno che si è svolto giovedì 30 agosto nella sala di rappresentanza della Fondazione Caritro sul tema: ”Valorizzazione del noce da frutto in Italia, nocicoltura specializzata, realtà locali e prospettive future attraverso la ricerca scientifica”.

Al convegno hanno partecipato in qualità di relatori tecnici internazionali, nazionali e locali oltre ai ricercatori della Fondazione Mach (Michela Troggio, Erica Di Pierro, Luca Bianco) incaricati di realizzare un progetto triennale finanziato da Caritro, intitolato NoBle (Noce Bleggiana). Obiettivo del progetto, avviato nel 2017 è creare una carta di identità della noce trentina (Bleggiana in particolare) indagando le sue caratteristiche fenotipiche (comportamento vegeto-produttivo), nutrizionali e salutistiche oltre ai gusti dei consumatori. 

In sala erano presenti molti nocicoltori delle Giudicarie, ma anche veneti ed emiliano-romagnoli. L’allargamento dell’uditorio non è casuale. Ce lo ha fatto capire la stessa Michela Troggio. Il progetto ha innanzitutto lo scopo di evidenziare i contenuti bromatologici della noce Bleggiana per sottolineare il suo valore non solo organolettico e salutistico, ma anche commerciale.

Il rilancio della nocicoltura ha bisogno anche di una radicale revisione tecnica ed agronomica del sistema di coltivazione. Per questo, dice la ricercatrice, abbiamo bisogno di confrontarci con chi è più avanti di noi. Il riferimento è agli estesi impianti di noce del Veneto (1000 ettari) e di altre regioni italiane. I rapporti di collaborazione con l’Università di Davis (USA) con il CREA di Roma e con l’Università di Udine ci servono per affrontare la non facile impresa del rilancio del noce e della messa a dimora di impianti di noce (non solo Bleggiana) in zone marginali, quali la Val Rendena e la Valsugana con una solida base esperienziale attinta da fonti esterne al Trentino. 

Rodolfo Brocchetti, rappresentante storico della nocicoltura bleggiana, conferma la disponibilità dei produttori locali ad accogliere la proposta di lanciare una nocicoltura da reddito alternativa anche alla frutticoltura. Dati alla mano: un impianto di melo costa 40-50 mila euro a ettaro contro i 6-7 mila del noceto. La rendita del noceto è di poco inferiore a quella del meleto. Ma gli interventi agronomici e di difesa fitosanitaria sono molti di meno. Confidiamo, dice Brocchetti, sui finanziamenti del Piano di sviluppo rurale e sull’aiuto dei tecnici della Fondazione Mach per il necessario aggiornamento di quanti aderiranno al progetto.

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