Ecuador, torna il sereno?

Dopo due settimane di proteste represse con la forza il governo Moreno ritira il decreto della discordia

Sono state due settimane di fuoco le ultime in Ecuador: dodici giorni di scioperi spesso repressi con la forza dal governo guidato dal presidente Moreno, che ha risposto con violenza alle veementi proteste delle organizzazioni sindacali e indigene in mobilitazione contro l'approvazione del Decreto 883. Un decreto che se nella forma si proponeva di attuare una serie di misure economiche di austerità concordate con il Fondo Monetario Internazionale, in pratica abrogava una serie di sussidi fondamentali per le fasce più povere della popolazione ecuadoriana, composte perlopiù da indigeni e contadini.

A scatenare l'ira dei manifestanti in particolare la cancellazione del contributo statale sul carburante, causa di un immediato aumento del prezzo della benzina di oltre il 120%, ma anche l'aumento delle tariffe dei trasporti pubblici ed altre misure decisamente impopolari, mentre dall'altro lato si favoriscono ancora una volta le multinazionali a cui il governo ha intenzione di affidare lo sfruttamento a condizioni di favore delle importanti risorse petrolifere del Paese.

Da qui le proteste, che in un crescendo di malcontento, causato anche da un'iniziale muro contro muro, si sono radicalizzate, portando spesso e volentieri a scene di guerriglia urbana nelle quali ad avere la peggio sono stati i manifestanti. Così pochi giorni fa, mentre nelle piazze scendevano i corpi antisommossa e veniva dichiarata la situazione di emergenza, il presidente ha lasciato la capitale Quito in mano ai dimostranti per trasferire temporaneamente la sede del governo nella più tranquilla città costiera di Guayaquil”.

Un periodo vissuto alla giornata, come raccontava domenica scorsa da Quito don Giuliano Vallotto, missionario fidei donum della diocesi di Treviso: “Il potere ha scelto di presentarsi con la faccia più feroce: quella dei gas lacrimogeni e dei fucili. Le provincie a maggioranza indigene sono tutte in agitazione”.

Negli ultimi giorni però pare essere tornato il sereno, o almeno una tregua, visto che sono ancora diversi i leader della protesta e gli oppositori politici legati all’ex presidente Correa incarcerati o sotto indagine. Dopo ore di trattative tra le delegazioni indigene e l’esecutivo, favorite dalla fondamentale mediazione della Conferenza episcopale ecuadoriana (CEE) e della delegazione delle Nazioni Unite, il contestato decreto è stato infatti ritirato e, così almeno promette Moreno, “sarà sostituito da provvedimenti a favore di chi ha più bisogno”.

“La saggezza, la passione e la decisione di vivere in pace hanno trionfato”, ha commentato monsignor Luis Cabrera Herrera, arcivescovo di Guayaquil e vicepresidente della CEE: “Possiamo continuare a sognare in un Paese in cui i diritti individuali e collettivi sono rispettati, e costruire la pace su basi di giustizia, verità, libertà ed equità”. Una “vittoria del popolo”, come la definisce la stampa internazionale che si fonda sulla solidità della Confederazione degli indigeni ecuadoriani (Conaie), la cui forza ha origini antiche. “Sono scese in piazza decine di migliaia di persone, comunità di indigeni provenienti sia dalla montagna che dalla selva che negli anni hanno preso coscienza della loro condizione e dei loro diritti anche grazie all’aiuto dei tanti missionari impegnati in Ecuador, il cui precursore fu il salesiano Silvio Broseghini, originario di Pinè”, ci racconta il dottor Mario Giampiccolo, del movimento Operazione Mato Grosso e grande conoscitore della realtà ecuadoriana, che nota la coincidenza temporale tra la crisi ecuadoriana e l’inizio del Sinodo per l’Amazzonia, nella speranza che anche questo grande evento possa contribuire a ristabilire la pace, i diritti e la giustizia in Ecuador e per tutti i popoli che abitano l’area, cruciale per il futuro dell’intero pianeta.

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