Federica, dal S. Chiara a Freetown

La giovane Sartori è in Sierra Leone per Emergency. Il lavoro di infermiera, osserva, è duro, ma molto gratificante

“Quel che mi colpisce di più della gente in Africa? La felicità. Non hanno nulla, ma tanta voglia di vivere”.

Federica Sartori, infermiera in Sierra Leone per conto di Emergency (l’organizzazione nel settembre 2018 ha tenuto a Trento il suo 17° Incontro Nazionale), non ha alcun dubbio: è questa caratteristica che attrae maggiormente nelle persone che incontra quotidianamente all’ospedale di Freetown dove lavora.

Questa giovane donna trentina, 26 anni, sorriso solare e lo sguardo radioso, bellissimo, ha scelto di andare in Africa, lasciando momentaneamente il suo posto di lavoro all’ospedale “Santa Chiara” di Trento – è nel reparto di Anestesia da 4 anni – proprio per sperimentare in pieno la sua professione in contesti difficilissimi ma umanamente molto arricchenti.

E’ ripartita per la terra africana da poche settimane, vi rimarrà per sei mesi e c’è da pensare che saranno tempi intensi con orari di lavoro assai pressanti, perché le necessità sono immense e le disponibilità limitate. Dieci, dodici ore al giorno dal lunedì al sabato più tutte le reperibilità fanno sì che si arriva alla sera stanchi stremati, ma con l’animo contento. “I bambini poi…”. E’ tutto un mondo di umanità spontanea – le donne africane con i loro sguardi belli – e con infinite necessità materiali e spirituali che attraggono, per cui il lavoro di infermiera, osserva Federica, è duro, ma molto gratificante; è un approccio olistico quello che va sperimentando ogni giorno, che tiene conto di diversi aspetti, non solo quello strettamente “sanitario” ma abbraccia tutto un mondo di relazioni e di affetti, di sguardi e capacità di intrattenersi con le persone. “Prendersi cura”, dice questa giovane donna – con tutta la vita davanti e tanto entusiasmo nel cuore – e c’è da crederle perché in queste due semplici parole sta tutto un comportamento, un modo di atteggiarsi, esprimersi, modificare persino il suo “essere”. Federica qualche volta fatica a trovare le parole giuste in italiano tanto è “immersa” nel suo mondo africano, con la “sua” gente, per cui le vengono meglio i termini in inglese.

Insieme a un paio di colleghe a Freetown coordina un centinaio di infermiere e infermieri del posto e pure questo fa emergere qualcosa di importante perché significa avviare quel contesto sanitario ad una qualche autonomia, far sì che imparino piano piano a camminare con le proprie gambe; come a dire che, col tempo, saranno gli africani a salvare l’Africa. Ci vuole tempo, appunto, occorre pazienza, ma questa è la strada segnata per una vera e fattiva solidarietà che non sia semplice assistenzialismo. I pazienti sono anch’essi un centinaio, vittime di incidenti stradali, di cadute; per i bambini nel reparto pediatrico si tratta di casi di malaria, bronchiti…

“E’ un’esperienza bella, ricca, formativa, stimolante. Dal punto di vista umano sono felice e realizzata”, afferma Federica. Poter fare qualcosa in un luogo dove l’accesso alla salute e alle cure non è garantito, se non pagando, dà grandi gratificazioni; senti che servi e che la tua presenza è gradita, dice. Si creano contatti di vicinanza e “umanità” veri.

Non che tutto sia semplice. La vita a quelle latitudini è dura, è una battaglia quotidiana, molti i pericoli. “Dicono ‘aiutiamoli a casa loro’ ed io voglio farlo davvero. Adesso che sono ‘a casa loro’ vi assicuro che non è per nulla facile vivere in queste parti del mondo. Io sento che è mio dovere civile dare una mano a chi non ha avuto tutte le opportunità che sono state date a me”. Federica, buon lavoro in terra d’Africa. Buona vita.

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