In Colombia, Comunità di pace tra incudine e martello

A Trento gli attivisti colombiani Roviro Lopez Rivera e Levis Johanis Florez Ramos, accompagnati dal gruppo locale Quilombo Trentino dell’Operazione Colomba

Stretta tra l’incudine dell’esercito e il martello dei gruppi paramilitari, subito pronti ad occupare le zone lasciate libere dalle Farc, il movimento della guerriglia che ha deciso di sottoscrivere la pace con il governo colombiano: in questa scomoda posizione si trova la Comunità di pace di San José de Apartadó, nella regione dell’Urabà, dipartimento di Antioquia, che da ventun’anni è protagonista di un processo di resistenza nonviolenta alla guerra, restando neutrale nei confronti dei vari attori armati che si sono contesi a lungo il territorio. Questa neutralità, si potrebbe quasi dire profetica considerata la situazione del Paese, è oggi pesantemente minacciata. Lo hanno raccontato in un lungo tour in Italia e in alcuni Paesi europei due esponenti della Comunità, che, accompagnati dal gruppo locale Quilombo Trentino, i cui progetti sono stati in parte sostenuti dalla Provincia Autonoma di Trento, hanno portato la loro testimonianza anche a Trento e a Rovereto. Abbiamo incontrato Roviro Lopez Rivera e Levis Johanis Florez Ramos insieme alle volontarie di Operazione Colomba – Irene, Monica, Giorgia, Silvia -, il Corpo nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, presente in Colombia dal 2009 per garantire protezione e accompagnamento alle persone vittime del conflitto. Con loro anche il volontario di Operazione Colomba, Fabrizio Bettini.

“Continuiamo a credere nella possibilità di costruire un mondo nuovo – dice Roviro Rivera -, un mondo diverso da lasciare ai nostri figli”. E’ una prospettiva che per ora sembra davvero tragicamente remota. Sia lui sia Flores Ramos, come altri componenti della Comunità, sono stati più volte minacciati per il loro impegno. E il viaggio in Europa costituisce per loro un’occasione per lasciar calmare le acque, decisamente turbolente in questo periodo. Entrambi, in quanto effettivi difensori dei diritti umani, spiega Fabrizio Bettini, potrebbero rientrare a pieno titolo nel programma di protezione per i difensori dei diritti umani che il Consiglio della Provincia Autonoma di Trento ha approvato il 31 gennaio scorso, primo ente locale in Italia, al culmine di un percorso dedicato dall’associazione Yaku alle donne che difendono i diritti umani ed ambientali, sviluppato nei mesi precedenti attraverso la rassegna “Donne In Difesa Di”. Sono sempre più numerose nel mondo le persone sotto attacco per il loro impegno in difesa dei diritti umani e come tali riconosciute ufficialmente anche dalle Nazioni Unite. “Ma non si può pensare – osserva Bettini – che tali persone abbandonino a tempo indefinito le loro comunità”.

L’avvio del processo di pace – peraltro non condiviso dall’Eln, altro gruppo della guerriglia che rifiuta le condizioni del governo e anzi accusa il nuovo presidente Ivan Duque di sabotare il cammino verso la pace – non ha portato finora i benefici sperati. Anzi, nel territorio della Comunità di pace di San José de Apartadò i gruppi paramilitari rialzano la testa, minacciano apertamente i membri della Comunità, entrano nei villaggi cercando di fare proseliti soprattutto tra i giovani, spesso riuscendovi: li assoldano, anche minorenni, per addestrarli a condurre poi azioni violente contro la Comunità, i cui abitanti finiscono per essere intimoriti e indotti ad andarsene. Fanno gola, quelle zone nella selva, a potenti gruppi multinazionali che già ne sfruttano le risorse. La Comunità di pace è presenza scomoda, in primo luogo per la sua radicale scelta della nonviolenza che mina alla base l’idea, che fa comodo a chi detiene il potere vuoi politico vuoi economico, che debbano essere i rapporti di forza a stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Aggrava una situazione già difficile il fatto che l’esercito regolare, spesso, come denuncia la Comunità di pace di San José de Apartadò, presente con le sue postazioni nella selva a poca distanza dalle zone di influenza dei paramilitari, appare per nulla propenso a intervenire per limitarne la violenta arroganza, quando addirittura non connivente. Anche la presenza dei volontari internazionali – molti quelli partiti dal Trentino in questi anni – non sembra più sufficiente per garantire sicurezza alla Comunità. Significativo è in tal senso il tentativo di attacco subito il 29 dicembre 2017 dal rappresentante della Comunità e fortunatamente sventato: due dei paramilitari che hanno cercato di ucciderlo sono stati consegnati alle forze di sicurezza, ma successivamente sono stati rilasciati. Non basta: per aver pubblicamente distrutto le armi con cui quel tentativo di attacco era stato perpetrato, i responsabili della Comunità sono finiti sotto processo. “Paradossalmente – osservano i due attivisti colombiani – si cerca di far passare la Comunità da vittima ad accusata”. E dire che il responsabile legale della Comunità di pace, German Graciano Posso, ai primi di settembre è stato premiato a Bogotà quale difensore dei Diritti Umani dell’anno (Defensor del año 2018). E’ Un riconoscimento, sottolineano a una voce le volontarie dell’Operazione Colomba, a tutta la Comunità, a quei contadini, uomini e donne, “che in tutti questi anni hanno lottato e creduto che è possibile costruire qualcosa di diverso”. Quelli di San Josè de Apartadò continuano a crederci, coltivando in modo biologico yuca, banane, platano e cacao (se ne ricava la barretta di cioccolato ChocoPaz, commercializzata attraverso il circuito del commercio equo e solidale) e coltivando relazioni con quanti, anche fuori della Colombia, condividono la resistenza nonviolenta di una Comunità che – nonostante le continue minacce – si ostina a parlare di speranza.

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