Non cantano più gli uccelli a Rilima

Quel 7 aprile 1994, inizio del genocidio in Rwanda, raccontato dal cooperante trentino Fabio Pipinato

Rwanda, 7 aprile 1994 – Ore 6 del mattino. Sveglia. Esco dalla porta di casa. Silenzio. Non si muove foglia. I primi raggi, deboli, illuminano l'acqua del lago. Ferma. Non vi sono pescatori, oggi. Le canne di papiro non ondeggiano. Non cantano più gli uccelli.

Mi reco alla fonte. Sarà o no una buona giornata? Tutto regolare. L'impianto funziona a meraviglia. Esce acqua in abbondanza. Buona nuova. I rifugiati burundesi, siti nei vicini campi, dall'ottobre dell'anno precedente, avranno anche oggi una razione potabile.

Carico le cisterne dei camion di color bluastro. Lo stesso colore delle tende di plastica che l'Alto Commissariato per i Rifugiati ha da poco distribuito per ricoprire dalla pioggia le capanne fatte intrecciando poca ramaglia. La stessa plastica la ritrovi, in abbondanza, nel mercato nero. Venduta per sopravvivere un giorno in più. Vorrei farmi aiutare per il carico d'acqua dagli zamu (guardiani notturni) che stanno confabulando tra loro e non danno retta alla mia richiesta d'aiuto. Li saluto. Muramuzeu! Che significa: Siete sopravvissuti alla notte? Non rispondono.Mi trovo in bilico sopra il cassone del camion con una pompa che spara a pressione incontrollata e loro stanno ancora lì impalati con una radiolina gracchiante.

Alzo la voce. Si avvicinano. Mi guarda Joseph, il più anziano e con un francese impastato di Kinyarwanda mi dice: – "Non è bene andare dai profughi, oggi!".Rimango impietrito! E' successo qualcosa di grave. La radiolina trasmette musica classica e proclami in lingua locale che non comprendo.

M'era capitato due mesi prima di disattendere i loro consigli e mi sono trovato nei guai. Dicevano: – "Non è bene andare a Kigali, oggi!". Ed io presa l'auto m’infilai, come un pivello, dentro una confusione tale che sembrò di stare a Sarajevo, nei giorni dell'assedio. Allora come oggi, la radio trasmetteva musica classica e proclami in Kinyarwanda.

Ci son voluti tre giorni di paura, un referente della Focsiv, Guido Acquaroli, incosciente, ed i caschi blu belgi per uscire da quel girone. Con quest'ultimi ho condiviso la fuga dalle granate ed gli spaghetti stracotti immersi nei sughi in scatola. In seguito sono stati "promossi" guardie del corpo del Primo Ministro – donna e politico formidabile. Dopo il 6 aprile sono stati passati tutti all'arma bianca; uno ad uno. Dall'ultimo al Primo Ministro.

Trovatisi in pericolo e circondati dai genocidari avevano implorato clemenza ai loro assassini e, nel contempo, chiesto via radio, a New York, il permesso di legittima difesa. Negato. Avevano la colpa d'esser belgi e su di loro cadeva l'accusa, da parte della cricca mafiosa al potere, d'aver ucciso il Presidente del Rwanda: Habyarimana.

Con loro è morta anche l'autorità sovranazionale. Ma non è servito a nulla. I governi hanno permesso un anno dopo la stessa ecatombe. A Srebrenica, in Bosnia, nel cuore dell'Europa. Delegittimate le Nazioni Unite. Uccisi i popoli.

– Cos'è successo? Chiedo agli zamu. – Ieri sera hanno ucciso il Presidente.

Sento che sta per crollare la piramide. Chiudo l'acqua. Mi siedo.

E' capitato ancora. Nei Grandi Laghi, quando muore un pezzo grosso, iniziano gli scontri tribali. Si colpisce ovunque, senza ragione. Anzi, con la massima pianificazione. E' poi l'esercito, unica agenzia che dà occupazione in Rwanda, a riportare l'ordine; dove, quando e nella misura in cui gli viene comandato.

Ma stavolta non si trattava di un pezzo grosso, ma del pezzo grosso.

Corro in casa a recuperare la mia radio. France International, tra le news, conferma riguardo l'uccisione del Presidente del Rwanda ed aggiunge che, assieme, è stato ucciso anche il Presidente del Burundi, entrambi di ritorno da Arusha – Tanzania dove hanno svolto "accordi di pace", più una decina di membri dell'equipaggio e tre ufficiali francesi.

L'amico Giandomenico Colonna è già al telefono: console, amici a Kigali, l'ong "Amici dei popoli" e le ong in Italia. L'equipe medica belga di "Médicins sans Vacances" è all'oscuro di tutto e tranquillamente sta facendo colazione nel refettorio comune; a breve apriranno la sala operatoria. In lista vi sono 10 bambini malati di polio da operare che sono nel contempo eccitati e con una tale fifa d'entrare nella sala verde.

Per fortuna ci sono loro. Il lavoro quotidiano senza il quale s'impazzisce. La microemergenza che ti fa deviare lo sguardo dalla catastrofe. Parlavamo, d'improvviso, due linguaggi: l'immediato ed il cosa accadrà. L'al di qua e l'aldilà del nostro progetto.

Dalla cartella clinica: allungamento del tendine d'Achille. Mentre il chirurgo incideva il piccolo di 8 anni con la massima cura ed attenzione per ridargli l'orgoglio di stare in piedi il fratello del bambino, a casa, cadeva a terra squartato, come centinaia di migliaia di bambini, dal machete. Abitiamo questa contraddizione impotenti con rabbia, dolore e lucidità.

Non potendo andare ai campi profughi, che stavano per diventare luoghi di reclutamento per compiere l’inverosimile, aiuto mia moglie Paola a preparare altri bambini per la sala operatoria. Serve sterilità ed acqua potabile in abbondanza.

A mezzodì arrivano notizie preoccupanti da Kigali: sono iniziati gli scontri cruenti tra le forze del Fronte Patriottico Rwandese – FPR e l'esercito regolare che già si contendevano zone diverse della capitale. Già dal pomeriggio vedo un via vai di camion militari dal vicino campo. In Europa, i TG ne parlano tra le ultime notizie e si limita il conflitto alla capitale. E' subito notte! Si decide di dormire tutti assieme nel salone accanto al refettorio.

Sorridevo quando, durante il periodo di preparazione in Italia, i vecchi volontari rientrati dai Grandi Laghi c’insegnavano ad uscire dalle emergenze. Ci dicevano di non contraddire i soldati; di dormire sotto le finestre; di tenere aperto il collegamento radio, di contrattare le richieste di corruzione e così via. Arrivato a Rilima mi lamentai con la direzione del Centro per l'esile rete che divideva il paese con l'ospedale. La vedevo come un ostacolo tra noi e la gente. Il 6 aprile avrei desiderato un muro alto 6 metri con i reticolati a corrente 380 a protezione del mondo che c'era attorno a me. La vita? Una contraddizione.

Sono arrivato a desiderare i mercenari. Potevano sparare qualsiasi cifra, li avrei assoldati. Mi son fatto paura, ho avuto paura. Stavo entrando, anch'io, nella logica viziosa della guerra… paura dell'altro… difesa armata… incutere paura…. sino alla morte. Ti cambia la mente. Ti fa paura.

L'esile rete permise a decine di persone di salvarsi la vita, durante la prima e le seguenti notti. Decine di persone scampate dal genocidio.

Il personale del Centro inizia a dividersi. Hutu da un lato e tutsi dall'altro.

– No. Non dividiamoci! Urla l'assistente sociale responsabile del Centro. Dobbiamo stare uniti.

– Così ci uccidono sia noi che voi! Le risponde l'amica di etnia hutu che ha saputo di esser tale solo perché fu scritto, su mandato coloniale, sulla carta d'identità.

Bisogna preparare, per i tutsi, un nascondiglio sicuro, all'insaputa dei primi. All'insaputa di tutti. C'è una camera oscura vicino alla sala operatoria. Nessuno ne conosce l'esistenza a parte i medici. Ci mettiamo alcune coperte ed in piena notte portiamoci i tutsi. Se arriverà l'esercito o i genocidari non li troveranno. Li hanno poi trovati. A fare la spia è stato uno con cui ho lavorato fianco a fianco per quasi un anno. Vittorioso durante i massacri e braccato in seguito, dagli oppressi di ieri. Una vendetta che dura sino ai giorni nostri e che si è allargata a mezzo continente. Infiniti rifornimenti d'armi renderanno i tutsi vincitori ovunque. Con loro arriva la Chiesa protestante, la legislazione su modello inglese. A Kigali, oggi, i bambini studiano in inglese. Politica internazionale ed adattamento.

Il ministro. In linea c'è il ministro! Grida l'amico Giandomenico. Via satellite la Farnesina ci raggiunge. Ci garantisce che in breve tempo saranno da noi gli italiani, anzi, i paracadutisti francesi. Forse i belgi.

Passeranno, poi, lunghe giornate. L’interramento di mine da parte dell’esercito rwandese e le minacce da parte del Fronte Patriottico fanno desistere ogni esercito a metter piede dentro i confini del piccolo Rwanda. Anzi. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, anziché rafforzare la presenza delle forze armate, le riduce drasticamente. Sarebbero bastati 5.000 uomini per fermare i massacri come auspicato dal generale canadese Dallaire a capo della Missione, ma i governi fanno orecchie da mercante. In Italia sta per cambiare il governo: Berlusconi 1. Referente nostro è ora il ministro Martino e non più il trentino Andreatta.

Il fabbro dell'ospedale mi chiede di andare a recuperare la moglie ed i figli che sono fuggiti da casa durante la notte, evitando il massacro. Ora sono dalla zia. Conosco la strada. Esco dall'Ospedale con la jeep Pajero. In tasca ho una scacciacani che avrei avuto paura solo ad impugnare. Trovo la moglie del fabbro e le bambine là dove indicatomi. Carico tutti in auto, sotto una coperta, e torno all'ospedale. Per le strade i genocidari, arrivati da lontano, scortati dall'esercito hanno già iniziato la mattanza. Uccidono coloro che hanno l'aspetto europeo: labbra non carnose e naso sottile. Sulla loro carta d’identità è marchiata la condanna.

L'inferno non può essere peggiore; vedi scene che ti fanno sprofondare di girone in girone. Senza pietà. Non c'è fine al peggio sino a trovarti in paradiso. Mi spiego. La gente sorride, collabora. I bambini saltellano, indicano ai genocidari dove si sono rifugiati i loro coetanei tutsi come stessero giocando a nascondino. Le donne aiutano l'esercito a compilare la lista come fosse quella della spesa ed invece è la lista delle persone da eliminare. A migliaia. Uno studente delle superiori, vedendomi, mi grida: "E' la nostra Rivoluzione Francese". Altri "Libertà, libertà". C'è raduno, folla, lo "stare assieme". Tutti rubano di tutto. E' finita la fame, l'oppressione, l'umiliazione d'essere figli di un dio minore. Da sempre servi. Insomma, è la festa. Il "nobile" se ne sta nascosto nei canneti, in foresta, nelle paludi. Con la sua famiglia; i suoi bambini. Qualche mamma li annega. Una morte più dolce del lungo coltello. Il marito di etnia hutu è costretto ad uccidere la moglie tutsi sotto gli incitamenti del branco. L'etnia prima di ogni altro legame. Lo predicavano anche alcuni preti.

Impotente mi faccio largo a suon di clacson nella strada principale affinché non scoprano il mio carico. Intravvedo tra coloro che uccidono e coloro che stanno per essere uccisi, vicini di casa, conoscenti, amici. Follia popolare. Il giorno prima stavano seduti in chiesa o al bar. Assieme.

La radio incita gli uni a riempire le fosse comuni degli altri, moderati hutu compresi. Molti, troppi hutu che non volevano sposare la logica del “o di qua o di là”.

Passa un'altra notte. Lenta. Le grida fuori dell'ospedale, nuovi rifugiati dentro. Colpi di fucile. Facciamo tutti la guardia, tranne gli zamu, che stavano complottando per allearsi con i più forti. Vivere non fidandosi del vicino. – Ma tu hai coraggio di uccidere? Mi chiese il fabbro alle 3 di mattina, durante un turno di guardia e di accoglienza degli scampati.– Io no. Gli risposi. – E allora che cosa ci fai qui con noi? Vai a dormire!

No. Non ci vado. Esco dal centro. Notte fonda. Buio pesto. Mi sfiora un gruppo di poche persone che mi salutano cordialmente. I machete grondano di sangue. 500 scellini a testa.

Il mattino dopo trovo una bambina con il ventre squarciato da una granata. Veniva a fare colazione da noi. I suoi parenti sono giù nel pozzo.

Dopo interminabili giornate d'attesa arrivano i belgi. Teste di cuoio. Ragazzi poco più che ventenni dipinti di nero. Senza alcuna paura di uccidere, se necessario. Non devono chiedere permesso ad alcuna autorità sovranazionale, ma solo portare a termine il loro lavoro. Il comandante è esperto di evacuazioni: Zaire, Burundi ed ora Rwanda.

Il centro esplode di gioia. Tutti si considerano salvi. Dalla paura collettiva. Da loro stessi. Dai genocidari. Da chi gli sta accanto. Hanno fame. Si prepara loro da mangiare. Si da fine alle scorte. Poi il loro capo riceve una telefonata. Urla in francese. Stanno massacrando a Kigali i loro commilitoni. I ragazzi belgi che lavoravano sotto l'egida dell'ONU e che ho conosciuto due mesi prima.Contr'ordine. Portare via solo i bianchi. Subito. E contro la loro volontà.

E' la disperazione. Il personale tutsi chiede di essere ucciso con una mitragliata. Gli zairesi rivendicano diritti d'appartenenza alla comunità internazionale. La Farnesina non risponde, il Console sta facendo del suo meglio a Kigali.

A forza ci caricano sui camion. Abbandoniamo tutti! Sotto la minaccia delle armi affinché nessuno tentasse di salire sui mezzi in partenza. E' iniziata la caccia al belga. Vietato parlare francese. Per noi. Vietato avvicinarsi ai camion. Per loro.

A Kigali ci attende un aereo che sarà, tra l'altro, carico di cani. I cani dei signori che vivevano nella capitale. Poche le persone di colore. Destinazione Bruxelles. L'aereo decolla. Il Rwanda brucia. Colonne di fumo si alzano dai cortili dei tutsi. Incendiate tutte le loro proprietà. A perdita d’occhio l’inferno.

In Belgio ci aspetta il Console mentre il Corriere della Sera titola in prima pagina: “Salvi gli italiani con tutto il personale locale”. Come promesso dalla Farnesina.Giandomenico va su tutte le furie. Le organizzazioni non governative pure. E' una palla. Il Console ci ascolta e chiede un incontro immediato con il Ministro Belga; anche lui presente all’aeroporto. Non sono stati rispettati gli accordi.

Il Ministro belga ascolta e si lamenta delle pretese degli italiani. Dopo una lite per niente diplomatica, il Console risponde secco: non sono italiano. Sono siculo! Silenzio. Il Ministro alza la cornetta ed invia una task force da Kigali, via elicottero, a Rilima. Li salva tutti, dopo una giornata di terrore. Ostaggi dell'esercito ed in attesa dei genocidari, stanchi e lontani.

Ci ritrovammo in Europa con decine di bambini, adulti, scampati. L'asilo di Castenedolo di Brescia offrì la sua struttura per accogliere i più piccoli. Ironia della sorte. L'asilo è a pochi metri dalla Valsella. La stessa fabbrica di mine vendute anche nei Grandi Laghi. Da lì a poco insorse la società civile e la Valsella venne riconvertita.

Ci si nutre di speranza. Nei Grandi Laghi ha inizio la conquista della Repubblica Democratica del Congo. La guerra continentale per la conquista del suolo e sottosuolo. I contratti, per la proprietà di quest'ultimo, vengono scritti, oggi, in lingua inglese.

S’insedia il governo dei vincitori. Inizia la vendetta. Lavori ancora in corso.

Fabio Pipinato

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