Segnali di pace tra Etiopia ed Eritrea

Una buona notizia. Da prendere col dovuto sospetto, però…

Che sia la volta buona? Lo speriamo vivamente. Quella tra Etiopia ed Eritrea è stata una guerra troppo lunga (trent’anni) e troppo stupida, insensata, assurda, come tutte le guerre. Che adesso il nuovo premier etiope Abiy Ahmed annunci che finalmente si lavora per la pace non può che essere una buona notizia. Da prendere col dovuto sospetto, però, perché anche precedentemente, di annunci ne erano stati proclamati – anche in pompa magna – per poi essere disattesi di lì a poco, e bastava un contrattempo, un lieve intoppo, un cavillo per mandare tutto all’aria.

E allora crediamoci sul serio a questa rinnovata volontà di porre davvero le basi per “costruire” la pacificazione tra i due popoli, accomunati, entrambi, dall’esperienza della colonizzazione italiana (da non dimenticare perché ha sedimentato odi e risentimenti, accanto ad una tradizione consolidata di “buon vicinato” a tratti paternalistico e assistenziale, a volte con autentico afflato di liberazione e riscatto).

Tutto risale, a dire il vero, alle origini di questo sanguinoso conflitto, addirittura all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando l’Onu aveva stabilito –arbitrariamente- che l’Eritrea fosse federata con l’Etiopia pur nell’ambito di un’ampia autonomia. Una formula assai ambigua e che gli eritrei non hanno mai digerito anche perché Addis Abeba in modo surrettizio andava via via trasformando la promessa di autonomia in una sorta di annessione neppure tanto larvata.

E’ stato nel 1991 che il Fronte di liberazione del popolo eritreo guidato dall’attuale leader Isaias Afwerki ha portato l’Eritrea all’indipendenza. Passaggio puramente formale perché non suffragato da un transito di sostanziale autogoverno e soprattutto per il fatto che il liberatore si andava trasformando in dittatore (accade sovente, purtroppo). E’ la triste, greve parabola di Afwerki che in tutti questi anni ha trasformato l’Eritrea in un’immensa prigione a cielo aperto. Con migliaia di prigionieri politici, con una leva militare obbligatoria che dura dai 18 ai 50 anni, che di fatto si rivela una costrizione di massa che priva i giovani delle più elementari libertà e diritti (non a caso fuggono in massa, quelli che riescono a eludere le strette e stringenti maglie della polizia segreta). Questo lugubre personaggio ha disseminato il territorio di spie e delatori al servizio del regime, nessuno si sente al sicuro, se non ti trasformi in un apatico e passivo sostenitore del leader. Uno Stato di polizia, l’Eritrea. E l’Etiopia uno Stato statalista, speculare realtà statuale che ricorda le peggiori esperienze di tipo sovietico; troppe le attività economiche sottratte ai privati e lasciate al pubblico con quanto di inefficienza e corruzione in genere ne consegue. La lunga guerra –durata alcuni decenni e costata 80mila morti (e migliaia di mutilati e feriti per non dire dei “feriti” nell’animo le cui lacerazioni difficilmente avranno un ristoro) – ha bisogno adesso di successivi, graduali, progressivi momenti per consolidare un processo di pacificazione che si prospetta pieno di insidie e tranelli. Il bello della pace comincia ora. Che trovi slancio e prospettive aurorali perché eritrei ed etiopi hanno fin troppo sofferto per decisioni presi da pochi governanti che a parole si sono detti rappresentanti del popolo mentre in realtà hanno fatto per lungo tempo i loro sporchi interessi, frutto di ripicche, gelosie, diatribe insensate di ogni sorta.

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