Tutti pazzi per il referendum?

A cinque mesi dalla data del voto la campagna si è già surriscaldata

Molti si chiedono come mai a cinque mesi dalla data del voto la campagna per il voto al referendum confermativo di ottobre si sia già così surriscaldata. La risposta che va per la maggiore, cioè che si tratti di “un’arma di distrazione di massa”, come ha scritto il direttore del “Corriere”, ci convince sino ad un certo punto. C’è anche la ragione contingente di distogliere l’attenzione dal tema delle elezioni amministrative (ma sarebbe strategia di corto respiro: l’esito di quella tornata, qualunque sia, infiammerà comunque il dibattito), forse pure quella di tenere a bada tensioni in materia di immigrazione, mercato del lavoro e quant’altro, ma non è sufficiente a spiegare il fenomeno.

Per paradossale che sia a tenere banco è il fatto che si tratta al tempo stesso di una questione molto seria e di una questione difficile da far capire alla gente. Il primo elemento è abbastanza evidente di suo: approvare o non approvare un aggiornamento del nostro sistema complessivo di governo e gestione della politica che è unanimemente considerato poco efficiente non è questione che possa essere archiviata senza conseguenze.

Se il referendum vedesse la bocciatura della riforma e di conseguenza la caduta non solo del governo Renzi, ma di quello che lui rappresenta (in sostanza un tentativo dell’Italia di uscire dai suoi impasse) avremmo problemi piuttosto gravi. Come minimo una fase di semi paralisi in attesa di elezioni anticipate e poi una votazione che, con un senato che dà la fiducia, ma è eletto con una legge poco efficace come quella prodotta dal pronunciamento della Consulta, ci porterebbe ad un esito di tipo spagnolo, cioè alla difficoltà assoluta di formare un nuovo governo.

Non è che ci voglia molto per capire quanto la prospettiva sia poco attraente: il fatto che dai vescovi italiani alla Confindustria ci si sia pronunciati per il sì significa che le istanze che valutano responsabilmente la tenuta del paese sono preoccupate di ciò che potrebbe avvenire.

Si potrebbe a questo punto ritenere che l’approvazione della riforma sia un esito abbastanza scontato, ma non è così. Questo è quel che pensavano Renzi e i suoi, fino a che non hanno riflettuto su un fatto banale: la forza di mobilitazione del no che poteva mettere in un cartello tutte le forze che per le ragioni più diverse, e anche contrastanti tra loro, vogliono arrivare a fermare i nuovi equilibri di potere che stanno avanzando dietro la formalizzazione del cambio di passo nell’organizzazione degli strumenti di decisione politica.

E’ bizzarro pensare che questo gruppo metta insieme stimati costituzionalisti e politici populisti, rancorosi membri di un’elite al tramonto e difensori acritici di una tradizione magnificata solo in tempi relativamente recenti, persino, per buttarla proprio in politica, esponenti dell’estrema destra con esponenti dell’estrema sinistra. Tuttavia questa è la realtà e come avviene in tutte le battaglie fondate su un mix di pre-giudizi e di interessi al mantenimento dello status quo si tratta di un’armata che non desisterà sino alla fine. Anzi di un’armata che ha cominciato molto presto la sua campagna.

In queste condizioni il premier si è sentito sfidato personalmente e, da quell’animale politico che è, non ha retto alla tentazione di scendere nell’arena e menare le mani, consapevole che se la battaglia sarà fra due opposte fazioni il rischio della sostanziale parità è alto (vedi caso dell’Austria, tanto per capirci). Occorre dunque mobilitare il vasto fronte degli indecisi, di quelli che non capiscono bene di cosa si stia parlando. Questi difficilmente sono conquistabili dalle ragioni del no che o sono sofisticate elucubrazioni da giuristi o sono prese di posizione dell’antirenzismo militante, dunque roba che non va oltre il consenso di quelli già convinti. Però perché si schierino con il sì bisogna convincerli che la diserzione delle urne sarebbe una catastrofe, impresa anche questa non proprio delle più semplici.

Di qui la scelta di Renzi di attaccare a testa bassa, senza andar troppo per il sottile. Si tratta di una strategia a suo modo rischiosa perché apre una stagione di scontro a tutto campo che poi non sarà facile chiudere, ma soprattutto perché rischia fortemente di imbalsamare in un idolo da adorare una riforma che invece, per dispiegare veramente gli effetti positivi di cui pure è portatrice, avrebbe bisogno di essere attuata con realismo, tempismo e flessibilità.

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