Un appuntamento poco risolutivo

Poiché siamo un paese provinciale che cerca presagi e conferme in quello che accade intorno a lui, sebbene non c’entri nulla, adesso uno dei temi di moda è disquisire sul senso delle primarie, visto che in Francia sono arrivati al ballottaggio candidati che quelle forme di selezione le avevano snobbate. Chi conosce la situazione sa che il parallelo non regge. Marine Le Pen non ha fatto le primarie per la semplice ragione che è già da tempo leader riconosciuto del suo partito (avrebbe potuto anche farle e avrebbe stravinto, ma non aveva senso). Macron non poteva fare le primarie perché ha scelto di tirarsi fuori da partiti che sono in mano alle nomenclature le quali, come dovunque, non amano gli outsider. In Francia alle primarie votano i soli iscritti ai partiti e non gli “elettori” (per quanto generica possa essere questa definizione), dunque per chi ritiene che gli iscritti non siano rappresentativi delle scelte dell’elettorato non ha senso sottoporsi a quel passaggio.

In Italia la situazione è differente da vari punti di vista: nel PD, l’unico partito che le fa davvero, la partecipazione è libera per chiunque si dichiari elettore (il che, sia chiaro, non è esente da rischi di infiltrazioni e manipolazioni); inoltre nel caso di cui ora si discute non si tratta neppure di “primarie” per successive competizioni, ma di una sorta di elezione diretta del segretario del partito.

Detto questo per chiarezza, non vi è dubbio che l’appuntamento ai gazebo del PD il 30 aprile non si annuncia sotto i migliori auspici. La gente appare stanca di mobilitarsi, soprattutto perché ha visto quel che è uscito da precedenti prove di questo tipo: né Prodi che mobilitò quasi quattro milioni di elettori, né Bersani, né Renzi, entrambi con affluenze notevoli hanno tratto dal consenso popolare la forza per imporsi sulle beghe fra le tribù del loro partito e dei partiti alleati. Se non si tiene conto di questo fatto (ed è ciò che fanno un po’ tutti) per forza non si capisce come mai la mobilitazione intorno all’puntamento di domenica prossima non sfondi oltre le fasce di popolazione con maggiore coinvolgimento politico.

Aggiungiamoci che non si è fatto molto per muovere la partecipazione. Non è questione, come accusano fariseisticamente Orlando ed Emiliano, di una gestione del partito che per favorire Renzi terrebbe basso lo sforzo di propaganda. E’ il problema di tre candidati che hanno impostato la campagna come fosse un concorso per decidere chi è il più bello del reame: di proposte politiche forti, di veri programmi per il futuro non se ne sono visti, perché tutti hanno cercato di pescare nello spettro più ampio possibile di opinioni e di conseguenza era meglio non esporre le proprie se potevano essere orientate in senso deciso. Alla fine ha prevalso, come è tipico appunto dei concorsi di bellezza, il pettegolezzo sui difetti dell’avversario (magari fatto gestire dai supporter per non sporcarsi le mani) unito alla classica profezia catastrofistica: se vince il mio avversario siamo finiti, andiamo a sbattere, ecc. Sembra banale dover ricordare che in quel caso ci sarebbe un magro futuro anche per gli sconfitti e che non si sa a cosa potrebbe servire il classico “io l’avevo detto”. Come davvero in questo caso dimostra la Francia, quando si è sfasciata la tenuta di un partito non è che ci sarà modo di recuperare, perché si affermeranno forze nuove destinate a durare.

Per il complesso di ragioni che abbiamo cercato di esporre la partita del 30 aprile non sarà risolutiva. Non è questione di quanta gente andrà a votare, perché è già chiaro che comunque chi perde non è disponibile a riconoscere il risultato. Certamente quel che emergerà da quelle urne determinerà mutamenti di equilibri nella nomenclatura del PD, ma non si andrà oltre, mentre ciò di cui quel partito avrebbe bisogno, come del resto tutti gli altri partiti, è di riattivare una filiera di selezione e coinvolgimento di ceti dirigenti e di ceti pensanti che ormai sono presenti solo in minima parte fra i politici di professione.

Del resto ci avviamo ad una fase che sarà piena di sforzi per trarre indizi e presagi da quel che ci succede intorno: presidenziali in Francia il 7 maggio, elezioni amministrative in Italia e politiche in Francia in giugno, elezioni in Germania in autunno A ciò si aggiungeranno le tensioni internazionali e quelle interne (a cominciare da ciò che succederà dopo il suicidio del sindacalismo nel caso Alitalia), per finire, ovviamente con le nuove elezioni politiche a fine legislatura (naturale o anticipata che sia). Davvero il 30 aprile non si concluderà alcuna fase politica.

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