Neanche un prete per chiacchierar…

Le parrocchie (o le unità pastorali) dovrebbero farsi carico della vita della propria comunità, trovando dentro di sé le risorse necessarie

Caro Pier,

ormai siamo tutti consapevoli che i pastori della Chiesa si trovano a confrontarsi con una decrescita pericolosa, anche se non parlerei di estinzione. Penso che una delle cause che hanno allontanato i giovani dalla vita di servizio al Vangelo sia stata quella di tenerli lontani per molti anni dalla vita di tutti i giorni. Per non ripetere gli schemi del passato, ora la scelta deve essere consapevole e anche vista con gioia, una scelta coltivata a contatto con tutti gli altri giovani, maturata misurandosi con tutte le normali difficoltà, discutendo di matrimonio, di paternità, di scelte professionali, di volontariato… Bisogna togliere molto clericalismo dalla formazione dei nuovi pastori. Non si può continuare a fa leva solo sugli uomini celibi ignorando il mondo femminile. Tu che ne pensi?

Sul numero 46 di Vita Trentina del 26 novembre scorso, in un’interessante intervista, il rettore del Seminario di Trento don Tiziano Telch risponde meglio di me ai quesiti che hai posto nella tua lettera e che si condensano in una critica alla formazione troppo “chiusa” degli aspiranti sacerdoti. Rispetto a qualche decennio fa l’impostazione è cambiata proprio nella direzione da te auspicata: più contatto con la vita “reale”; maggiori occasioni per “fare comunità” all’interno del Seminario (anche i lavori domestici!) e fuori; scambi continui con gruppi giovanili, parrocchie, studenti; “trasferte” per incontrare altre Chiese locali o per visitare luoghi in cui sono attivi progetti di cooperazione; periodi di formazione fuori dalla “struttura”. Insomma, come detto da don Tiziano, il Seminario “non è un castello”, un luogo da cui giudicare il mondo, ma un ambiente aperto, frequentato, capace di incontrare ed ascoltare le persone.

Penso che allora non sia un problema di “clericalismo” della formazione e di arroccamento nella tradizione o, peggio ancora, nell’abitudine. Il clima culturale e sociale spinge nella direzione opposta a quella delle scelte definitive al servizio degli altri. Questo lo sappiamo, ma la decrescita vistosa delle vocazioni con la conseguente emorragia del numero dei preti non va presa solamente come un problema organizzativo o educativo, ma può paradossalmente avere risvolti positivi. In effetti la scelta di farsi prete è più consapevole e matura rispetto al passato. Se ci mettiamo sul piano della fede, davvero i numeri non contano!

Sarebbe però troppo facile eludere gli aspetti preoccupanti di un momento di grande trasformazione della vita ecclesiale. Cosa manca? La soluzione sarebbe quella di consentire ai preti di sposarsi oppure di dare maggior effettivo spazio alle donne magari ordinandole anche diacone? Benché io sia personalmente favorevole a queste due possibilità, non credo che siano le questioni dirimenti. Il tema fondamentale risiede nel rapporto tra le cosiddette “comunità cristiane” (cioè le parrocchie) e la struttura gerarchica della Chiesa (incominciando dalla diocesi). Detto in poche parole: occorre ripensare la relazione tra fedeli e clero.

Lo schema tradizionale prevedeva l’assoluta centralità del clero che letteralmente faceva tutto chiedendo ai laici soltanto obbedienza e ossequio. Specie in Italia la Chiesa veniva vista alla stregua dello Stato, un’istituzione spesso lontana da cui aspettarsi alcuni “servizi” indispensabili: i fedeli venivano così deresponsabilizzati dalle scelte ecclesiali, privati di qualsiasi voce in capitolo. Naturalmente questa è una semplificazione, ma è vero che anche oggi scontiamo questa visione che non corrisponde più alla società presente.

Più volte ho scritto che, piano piano, le parrocchie (oppure le unità pastorali) dovrebbero farsi carico della vita della propria comunità, trovando dentro di sé le risorse necessarie. Invece adesso – a cominciare dagli aspetti economici – tutto dipende dalla Curia che si preoccupa di ogni cosa. Ci appare ovvio che il parroco sia mandato dall’autorità diocesana, sia formato in Seminario e sia una sorta di “dipendente” della Curia. Come ci appare ovvio che, al di là delle offerte domenicali, sia qualcun altro che si occupa delle finanze della parrocchia, non certo noi con i nostri soldi.

Forse è necessario cambiare paradigma mentale. Diventare consapevoli di non essere semplici “utenti” dei servizi parrocchiali, ma attori responsabili che si prendono a cuore la comunità di appartenenza. Trovare le risorse per il catechismo, per la liturgia ma pure per le incombenze materiali. L’utopia sarebbe quella per cui da ogni comunità scaturissero anche le vocazioni presbiterali.

Detto chiaramente: le comunità dovrebbero “trovarsi” anche il prete. Questa è un’esagerazione, ma è vero che la distanza tra parrocchia e Seminario è destinata a diminuire. Con ogni evidenza il cammino è molto lungo. Forse però la consapevolezza che la vita (o la morte) della comunità dipende dalle proprie scelte farà aumentare la disponibilità di ciascuno a dare il proprio contributo. Magari anche con la decisione solenne di farsi prete.

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