Cosa sappiamo di Dio

L’evento fondante il cristianesimo, la risurrezione di Gesù, è raccontato dagli evangelisti in quattro modi diversi e avviene nel segreto della tomba vuota e nel silenzio della notte

“Non è bene parlare quando la bocca di Dio è chiusa”. Con queste parole il riformatore Giovanni Calvino metteva in guardia la teologia – e qualsiasi discorso religioso – dall’abitudine di spiegare tutto, di aggiungere interpretazioni, in fondo di sostituirsi a Dio stesso. A volte però Dio tiene la bocca chiusa. Troppe volte, per i nostri gusti. Dovrebbe chiarirci molte cose. Neppure la Bibbia ci può confortare, perché è piena di spazi vuoti e di lunghe attese, sia da parte dell’uomo sia da parte di Dio. L’evento fondante il cristianesimo, la risurrezione di Gesù, è raccontato dagli evangelisti in quattro modi diversi e avviene nel segreto della tomba vuota e nel silenzio della notte. La fede ci chiede di sostare davanti a questo silenzio, ci invita a non avere paura di lasciare uno spazio vuoto in cui soltanto Dio può operare.

Ancora una volta è bene mettere in evidenza un principio fondamentale: di Dio sappiamo soltanto ciò che Lui ci ha voluto rivelare. Ogni religione ha cercato di enunciare questa verità in molti modi. Per l’Islam Allah ha 99 nomi conosciuti, mentre l’ultimo, il centesimo, rimane oscuro. L’induismo segue un’altra via moltiplicando le personificazioni della divinità, senza mai però raggiungere il numero definitivo, visto che Dio è infinito, impossibile da rinchiudere in qualsivoglia raffigurazione. Per il buddismo Dio praticamente scompare, si può dire soltanto ciò che il principio, il senso delle cose, non è.

Tornando alla rivelazione biblica lo stesso nome di Dio, vale a dire la sua essenza più intima, rimane impronunciabile perché deve restare avvolto dal mistero. Il linguaggio antropomorfo riferito a Dio, tipico di quasi ogni pagina della Bibbia, vuole parlarci di una divinità comprensibile, vicina, desiderosa di incontrare gli uomini, capace di realizzare una salvezza non astratta ma conforme alle nostre aspirazioni più profonde.

Gesù approfondisce questa rivelazione proponendoci l’immagine di un Dio pieno di misericordia, padre amoroso capace di mandare il proprio figlio, cioè se stesso, agli uomini per portare l’annuncio gioioso della liberazione e della salvezza. Ci accorgiamo però che anche in questo discorso utilizziamo metafore. Dio è Padre, ma certamente questo appellativo non significa ciò che di solito intendiamo con il termine padre, cioè quella figura maschile che ha generato figli. Dio invece è anche Madre, come ha affermato per la prima volta Giovanni Paolo I suscitando impressione, ma in realtà usando un linguaggio presente nell’Antico Testamento. Dio è Padre perché gli uomini dipendono in tutto e per tutto dalla sua azione, perché il suo volto è quello di un padre premuroso che cerca di trasmettere ai propri figli la sua eredità, il suo essere più profondo. Insomma dentro questo concetto c’è anche l’amore materno che si strugge per il frutto delle sue viscere: Dio è come una madre disposta a dare la vita per i propri figli.

Gesù è il Figlio perché è lo specchio del Padre, è la sua immagine perfetta, nello stesso tempo un’unità e una alterità. Stiamo parlando naturalmente con parole umane per dire che l’essenza di Dio è una vicendevole relazione di amore. Ma anche la parola amore è soltanto un’approssimazione, il termine meno inadeguato per dire qualcosa di Dio. Gesù di Nazaret è vero uomo e vero Dio, perché il Maestro quando parlava e mangiava con i discepoli, quando percorreva le strade della Galilea, quando predicava, quando guariva i malati, quando moriva in croce era perfettamente uomo, ma allo stesso tempo narrava e compiva la storia del Padre, era la Parola definitiva di Dio sull’umanità. Chi vedeva Gesù intravedeva il volto di Dio.

Potremo continuare a lungo con questi discorsi. Ricordandoci che, prima di discutere sulle cose che riguardano Dio, bisogna premettere sempre un “se così si può dire”, perché Dio sfugge sempre alla nostra comprensione, non possiamo mai afferrarlo del tutto. Il mistero deve rimanere. Dobbiamo lasciare uno spazio per Lui ma anche per gli altri uomini che magari lo cercano con parole diverse dalle nostre. La modalità delle religioni nasce proprio da questo spazio bianco che, se così si può dire, Dio lascia alla nostra libertà.

Questa prospettiva non significa affatto che possiamo inventarci qualsiasi cosa su Dio. Guai a chi pensa di riuscire a costruirsi da solo un’immagine adeguata della divinità: dietro di noi c’è sempre una tradizione in cui innestarci, una tradizione fatta di parole di Dio tradotte in parole umane.

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