La fede al centro

Verso il convegno ecclesiale di Firenze 2015, l'invito a “battere i pugni sul tavolo”

“Il regno di Dio soffre violenza, sono i violenti che se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Queste parole di Gesù mi hanno fatto sempre molta impressione: non si tratta ovviamente di una esaltazione della violenza, della forza oppressiva che soverchia i più deboli, ma della constatazione che per raggiungere il regno di Dio occorrono tensione, determinazione, tenacia, capacità di sopportazione ma anche di profezia. Si sa che il profeta parla in nome di Dio, gridando con timore e con forza quegli annunci che gli fanno vibrare il cuore. Nello stesso tempo il profeta, e in generale l’uomo di fede, ha sempre paura di dire non ciò che viene da Dio, ma ciò che pensa lui stesso, ha paura di non fare la volontà di Dio, ma la propria. Ognuno di noi deve prendere la responsabilità delle proprie parole restando al cospetto di Dio, chiedendo aiuto e perdono per eventuali mancanze.

Nella Chiesa ogni credente ha il diritto di prendere parola e di indicare ciò che gli sembra sbagliato. A questo proposito mi è molto piaciuta la franchezza dell’intervento di Pierino Martinelli, delegato delle diocesi del Triveneto per il convegno ecclesiale di Firenze del novembre 2015, pubblicato sullo scorso numero di Vita Trentina. Martinelli ha parlato della svolta rappresentata dall’azione pastorale di Papa Francesco, ma non ha tralasciato di descrivere alcuni aspetti critici: da un’organizzazione troppo verticistica e lontana dai semplici fedeli, attenta a non alterare delicati equilibri gerarchici, al coinvolgimento di esperti in vista, sicuramente preparatissimi dal punto di vista culturale ma forse lontani da quelle “periferie esistenziali”, da quelle polverose strade di Galilea che il Papa ci invita a visitare.

Martinelli conclude con la pressante richiesta rivolta a tutti di farsi sentire, di “battere i pugni sul tavolo”. Quest’ultima espressione un po’ forte si riallaccia alla “violenza” di cui parlava Gesù. Per amore della Chiesa incamminata verso il Regno non bisogna tacere.

Quello che manca a tutti i convegni ecclesiali – e a molte delle nostre opere cristiane – è la fede. Essa è la dimensione a cui fare riferimento. Avere fede significa farsi sorprendere da Dio. Essere consci che c’è qualcosa che va oltre la nostra capacità e le nostre buone intenzioni: una Parola irrevocabile che viene da fuori e che ci invita ad andare fuori. La fede comincia con Abramo che si fida dell’ordine di Dio, di quell’imperioso “vattene!” (Gen 12,1). È un imperativo pronunciato da quella voce di silenzio sottile che può diventare il vento fragoroso dello Spirito. Questa fede fa trovare le parole giuste, quelle che non utilizzano il linguaggio del mondo. Le parole della fede sono semplici, essenziali, disarmanti ma anche dirompenti. Ecco allora la tensione a cui siamo chiamati: essere diuturni uditori della Parola per trovare le parole adatte a trasmettere quella Parola.

La fede poi ci fa guardare al mondo in maniera del tutto particolare. Le beatitudini di Gesù rovesciano la mentalità del mondo. Chi ha fede vede squadernarsi davanti a sé un’altra storia: il povero, il giusto, il rinnegato, la vittima sono al centro della realtà. Se vogliamo seguire il Maestro dobbiamo ribaltare la nostra visuale. Papa Francesco cerca proprio di ripartire dagli ultimi. Il vero volto di Cristo e dell’uomo si rivela in quanti hanno bisogno di salute e di salvezza. E quelli che invocano la salvezza sono già salvi, sono già perdonati. Per questo loro ci precedono sulla strada del Regno. Loro dovrebbero parlare al convegno di Firenze, non dotti intellettuali o forbiti monsignori.

La fede ci insegna a piangere sul dolore e sul peccato, a gioire su ogni cosa bella della vita. Bisogna essere capaci di consolare magari con un semplice abbraccio muto di condivisione, bisogna essere capaci di godere e di gioire per se stessi e per gli altri rendendo sempre grazie al Signore. Sperare che a un convegno abbastanza mastodontico e quindi burocratico si possa davvero parlare di dolore e felicità, sembra davvero troppo. Eppure il cristianesimo e ancora di più il cattolicesimo hanno bisogno di recuperare la tensione verso il lieto annuncio. Gesù ha portato una buona notizia. Chi crede in questa buona notizia non può non essere felice. Certamente anche per lui, come per Gesù, viene anche il tempo dell’angoscia che si vince ancora una volta con la fede. Questa buona notizia risuonerà anche a Firenze?

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