Morte e rinascita a primavera

Ildegarda di Bingen paragonava la vita presente all’inverno e la salvezza alla primavera, quando tutto sembra nuovo

Alle nostre latitudini l’inizio della primavera significa il risveglio della natura dal sonno invernale. I germogli, le tenere foglie, lo sbocciare dei fiori, lo stesso colore del cielo illuminato più a lungo dal sole, danno la sensazione di una gioiosa e inaspettata rinascita. Tutto appare nuovo. Bello, possibile. Per questo da sempre ogni religione, almeno nel nostro emisfero, vede in questa stagione l’inizio dell’anno, il tempo più favorevole per la festa, la vittoria definitiva della vita sulla morte, il ritorno alla luce di quanto sembrava ormai destinato irrevocabilmente alle tenebre. Non è un caso che di solito la Pasqua cada proprio nel cuore della primavera.

I poeti hanno celebrato in ogni modo questo rifiorire della vita. Quegli stessi poeti però hanno colto anche la drammatica contrapposizione tra l’ambiente naturale, che rinasce ogni anno, e la vita degli uomini che corre verso la morte. Verso un punto definitivo. Verso la fine, la perdita. È triste morire a primavera, durante la stagione delle speranze. Dalla morte non si ritorna. Di qui lo scarto tra l’uomo e la natura: nel cosmo tutto muore, tutto nasce di nuovo, tutto si trasforma, perisce, si genera di nuovo; ma quella persona che abbiamo conosciuto e che ora riposa al cimitero, non ci sarà più, non agirà più nel tempo e nello spazio di cui facciamo esperienza quotidiana. “Per te non torna primavera giammai, non torna amore”, così Leopardi si rivolge in maniera struggente a Nerina. “Passasti”, ripete per quattro volte il poeta ne Le Ricordanze. I morti sono passato, sono passati; la primavera è il futuro.

Oggi i cristiani cosa riescono a dire di fronte alla morte? Permane inquieta una certa confusione. Viviamo dentro una mentalità paradossale: se il materialismo dilaga e la visione naturalista del cosmo e della persona (non esiste alcuna dimensione spirituale, Dio non esiste oppure non conta niente) è diffusa nella maggior parte delle persone, ecco che sono pochissimi quanti convintamente affermano la definitività della morte. Di solito nell’immaginario collettivo, cristiano e non, il defunto continua a vivere, in paradiso, su una stella, su qualche pianeta, poco importa. Non solo: continua a vivere in una condizione sicuramente più felice di quella sperimentata durante l’esistenza terrena. Così siamo abituati a considerare la morte come un passaggio ad una situazione migliore. In questo c’è l’eco dell’eco della speranza contenuta nella Bibbia, ma siamo lontani dal cuore del messaggio ebraico e cristiano, cioè la vittoria finale della giustizia di Dio che significa la resurrezione dell’uomo e di ogni essere vivente.

In un certo senso credere a un paradiso artificiale e a buon mercato, specchio soltanto di desideri tipici della società individualista, è peggio che sentire l’angoscia della morte, percepire la tragedia di una vita che non tornerà, soffrire per amore senza avere la luce della fede. Il modello del cristiano è Cristo: e Gesù forse non si è angosciato nell’orto degli ulivi? Non ha temuto la morte? Come per ogni uomo, anche per Gesù, la morte è stata addirittura un elemento capace di mettere in discussione la sua comunione con il Padre.

La nostra è una società con poca speranza. Il nichilismo vuole cancellare la morte ma intanto si nutre del nulla. Il cristiano guarda all’esistenza lucidamente perché si fida di Dio. Sa che la morte è una porta stretta, ma che la relazione con Dio non può essere cancellata. Continuerà anche dopo il passaggio difficile a cui tutti andremo incontro. Dopo la morte dovremo approfondire la relazione con Dio, in quella comunione tra i vivi e i morti che ci parla ancora di Gesù Cristo, Signore dei vivi e dei morti. In attesa della resurrezione del corpo, cioè della vita tutta intera, del cosmo tutto intero. Quella è la meta ultima.

Ildegarda di Bingen, la grande teologa e mistica del dodicesimo secolo, paragonava la vita presente all’inverno e la salvezza, intesa come ricreazione e fioritura di ciò che sembrava definitivamente inerte e rattrappito, alla primavera, quando tutto sembra nuovo. Questa è la grande speranza, che può dare luce conforto energia alle fatiche quotidiane. La speranza, virtù che chiama all’azione, all’attesa operosa, alla costruzione concreta di un mondo non troppo dissimile da quello progettato da Dio.

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