Dalla legge alla vita

Is 62, 1-5;

Sal 95;

1 Cor 12, 4-11;

Gv 2, 1-12

Siamo consapevoli come singoli e come comunità cristiane che all’inizio della sua vita pubblica Gesù non va a predicare e non compie miracoli, ma va a nozze per celebrare l’amore, la gioia dello stare insieme? La fede è in noi la passione che ci spinge a non aver paura della libertà, della verità, della democrazia?

Quello delle nozze di Cana è senz’altro uno degli episodi evangelici più conosciuti, nel quale si narra il primo dei sette “segni” che Gesù compie nel quarto evangelo. Tante volte lo abbiamo letto, ma forse ogni volta siamo rimasti perplessi. Come mai proprio il primo “segno” è così modesto? Sorprende, infatti, che Gesù “manifesti la sua gloria”, dando vino a gente già ubriaca. L’episodio, inoltre, contiene alcune incongruenze e singolarità: Gesù chiama la propria madre “Donna”, e afferma che non è giunta la sua ora, ma compie il miracolo; la madre, dopo aver sentito la risposta di Gesù, dice ai servitori: «qualsiasi cosa vi dica, fatela».

In realtà, vi sono dei segnali che rimandano a un messaggio che va al di là della cronaca. Troppi particolari, ad esempio, vengono taciuti: gli sposi non hanno un nome. Gli invitati sono semplici comparse. Anche i discepoli e la madre non hanno un nome, manca una descrizione della festa… Mentre ad essere precisati sono tre particolari che, di per sé, non ci sembrano molto significativi per la comprensione del testo, ma che in realtà sono preziose indicazioni teologiche: il giorno in cui avviene la festa di nozze, il luogo in cui si svolge, e il numero delle giare. Il giorno delle nozze, il “terzo giorno” dall’incontro con i primi discepoli, narrato nel capitolo precedente, rimanda al giorno della resurrezione, ma richiama anche il giorno dell’alleanza, quando Dio si manifestò sul Sinai, secondo il Libro dell’Esodo (19,10-11.16).

Il luogo delle nozze, Cana di Galilea, che allude probabilmente al verbo ebraico “qanah” che significa “acquistare”, rinvia a Israele, il popolo acquistato da Dio con l’antica alleanza e che Gesù acquisterà con la nuova.

Infine, la cifra sei, riferita al numero delle giare, indica l’incompletezza, l'imperfezione, in opposizione al sette che indica la totalità. Forse possiamo subito intuire che con il racconto della festa di nozze si parla in realtà di Gesù, sposo dell’umanità, che supera l’antica alleanza e instaura la nuova. Soffermiamoci allora solo su due versetti, che ci fanno gustare l’intera narrazione. Anzitutto la frase che Maria rivolge a Gesù: «Non hanno più vino». Mi piace pensare che s’accorga che la religione giudaica era fatta di doveri, di regole e di divieti, ma era senza passione ed entusiasmo. Era una religione fondata sulla legge e sulla ripetizione del passato: c’era il rifiuto del nuovo. E le persone restavano prigioniere della religione. Il vino è sinonimo di allegria, di vitalità, come quando ci si lascia inebriare da un bacio o da una carezza, che esprimono amicizia, amore, tenerezza. Il vino qui dice ai credenti di non aver paura del nuovo, di saper gioire ogni giorno della bellezza e della comunione con tutti, «perché Dio ha già gradito le tue opere» (Qoelet 9,7).

E passiamo al secondo versetto: «Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione». Anche questa espressione contiene dei simboli molto significativi. Anzi tutto il numero sei, che indica insufficienza, mentre il sette indica pienezza: la religione ebraica era insufficiente, bisognosa di cambiamento. Era fredda come la pietra delle giare, e freddo era anche il rapporto con Dio, fondato su leggi scritte sulla pietra. Ma i profeti diranno che occorre passare da un cuore di pietra a un cuore di carne. Gesù invita a passare dall’acqua al vino, simbolo del rapporto nuovo dell’uomo con Dio. (Non voleva che diventassimo tutti ubriaconi!) La fede deve essere passione per Dio e per l’uomo, per tutti gli uomini. «Là dove manca il desiderio di incontrarsi con Dio, non vi sono credenti, ma povere caricature di persone che si rivolgono a Dio per paura o per interesse» (Simone Weil).

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