Un Dio a nostra disposizione?

Ger 1, 4-5. 17-19;

Sal 70;

1 Cor 12,31 – 13,13;

Lc 4, 21-30

Le nostre comunità sono pronte a prendere sul serio la parola di Dio, seminata in mezzo a tutti i popoli, testimoniandola nelle scelte personali, sociali e politiche?

È sempre molto difficile imparare quello che si pensa di conoscere già. Così ha dovuto costatare anche Gesù, dopo il suo discorso nella sinagoga di Nazareth. «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza…: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Gli uditori, in un primo momento, rimangono stupiti, incantati. Ma la meraviglia passa presto. Addirittura quelli di Nazareth passano dallo stupore a una specie di furore omicida. («Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte… per gettarlo giù.») Le parole di Gesù non risuonano mai astratte e lontane: entrano nei cuori, smuovono la vita. Sono un invito anche per le donne e gli uomini di oggi a porsi domande diverse da quelle che i mercati o Facebook suggeriscono, scostandosi da interrogativi quali: ma questa cosa serve? È efficace? Porta qualche guadagno? Se non ci poniamo interrogativi diversi, più profondi, cosa possono dirci di nuovo le parole di Gesù, che invita a leggere la storia con occhi diversi, capaci di trarre conclusioni non scontate? Per di più, si chiedevano gli ebrei allora e forse non pochi cristiani se lo chiedono ancora: perché dovremmo ascoltare uno che conosciamo bene? Uno che sappiamo dove abita e di chi è figlio? Il pregiudizio rischia sempre di farla da padrone. E così si può certo guardare a Gesù, ma senza vederlo. «Quello che hai fatto a Cafarnao, fallo anche qui». È la storia di sempre, immiserire Dio a distributore di grazie, impoverire la fede a baratto: «io credo in Dio se mi dà i segni che gli chiedo; lo amo se mi concede la grazia di cui ho bisogno». Amore mercenario. «Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui. Non ci bastano belle parole, vogliamo un Dio a nostra disposizione; uno che ci stupisca, non uno che ci cambi il cuore.» (E. Ronchi). Gesù conosce i suoi compaesani, sa del loro attaccamento alle tradizioni, delle loro idee su come Dio dovrebbe trattare gli altri popoli. E ancora una volta scompiglia tutto, senza però tradire quanto dissero i profeti. Ed essi non accettano le aperture di Gesù, che suscita scandalo annunciando un Dio che ama anche i popoli pagani. Noi oggi potremmo aggiungere i buddisti e persino i mussulmani. Non dobbiamo attribuire a Dio i nostri pregiudizi, i nostri pensieri e le nostre scelte! Elia va da una vedova a Sarepta di Sidone, una donna pagana. Eliseo è mandato a guarire Naaman il Siro, quando «c’erano molti lebbrosi in Israele e nessuno di loro fu purificato». C’è un sentimento di chiusura che stanno sperimentando anche oggi molti cristiani, a oltre cinquanta anni dal Concilio Vaticano II; si fatica, ad esempio, a percepire che è una tragedia chiamare Dio col nome di Padre e poi non accogliere tutti come fratelli – tutti, non quelli che scegliamo noi – non accogliere chi viene dall’Africa su tragici barconi come persone amate da Dio, che è padre nostro e padre loro. La Chiesa, le comunità cristiane devono essere in ascolto dello Spirito e non sentirsene proprietarie; gioire perché Dio parla anche al di fuori dei loro confini: è il mondo il luogo dove Dio abita e manda i suoi messaggi.

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