Croazia e Balcani, un semestre bollente

Il premier croato Andrej Plenkovic a Strasburgo nella sede dell’Europarlamento

Il primo gennaio la Croazia gestirà la Presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea. Un grande momento di prestigio per uno dei maggiori paesi dei Balcani entrato a fare parte dell’UE nel 2007, sedici anni dopo la dissoluzione della Jugoslavia.

Questo evento potrebbe rappresentare un potente segnale di fiducia per gli altri 6 stati dell’area balcanica che ancora bussano alle porte dell’Unione in posizioni assai diverse fra di loro. Serbia e Montenegro già in pieno negoziato con Bruxelles; Nord Macedonia e Albania in attesa di aprire negoziati simili; ed infine Bosnia e Kossovo relegati ancora nel limbo dei potenziali candidati.

Ma questo segnale di fiducia, questo grande sogno di riscatto dopo la feroce guerra civile del dopo Jugoslavia, stenta a tramutarsi in realtà. A riportare i Balcani con i piedi per terra ci ha pensato il Presidente francese Emmanuel Macron che, assieme ad Olanda e Danimarca, ha posto il veto all’avvio delle procedure negoziali con Albania e Nord Macedonia.

La ragione? Secondo Macron l’UE non ce la fa a “digerire” altri paesi se prima non si cambiano le attuali istituzioni. Bella scusa, ma che valeva anche al tempo, nel 2004, del grande allargamento a ben dieci Paesi dell’Est Europa usciti dal giogo sovietico. Già allora si diceva: prima aggiustiamo le istituzioni comunitarie, poi allarghiamoci pure ad altri stati. Oggi in 27 (se la Gran Bretagna se ne andrà) è certamente difficile “governare” l’Unione, se la regola di base delle decisioni continua a rimanere quella dell’unanimità.

Ma allora non è il numero dei Paesi che conta, ma le procedure di voto che si applicano (o non si applicano, come potrebbe essere la maggioranza qualificata). A peggiorare le cose, sempre lo stesso Macron ha poi dichiarato che la Bosnia rischia di tramutarsi in una bomba ad orologeria. La ragione? Il possibile ritorno dei Jiadisti bosniaci dell’Isis dalla Siria. Ma anche qui la scusa è debole: secondo alcune stime, infatti, i cosiddetti “foreign fighters” dalla Bosnia sono circa 300, mentre quelli in provenienza dalla Francia assommano addirittura a 1900. Di fronte alle reazioni scandalizzate provenienti dalle capitali della regione, Macron ha poi aggiustato il tiro proponendo un piano in sette tappe per fare ripartire il processo di adesione dei 6 Paesi in attesa. La Croazia si troverà quindi nella scomoda situazione di dovere gestire nel prossimo semestre un dossier che, come molti si aspettavano, è tornato ad essere bollente. Il rischio per l’Unione è infatti duplice. Il primo è quello di perdere del tutto la propria credibilità, venendo meno alla solenne promessa del Consiglio europeo di Salonicco nel 2003 di offrire completa adesione a tutti i Paesi usciti dal conflitto jugoslavo: una grande assicurazione su un futuro di stabilità e pace.

Il secondo rischio è quello di perdere definitivamente il controllo e l’influenza di quello che è considerato il cortile di casa dell’Unione: i Balcani. Già da tempo Russia, Turchia, Cina e perfino gli stati del Golfo stanno offrendo assistenza e investimenti in infrastrutture a quei Paesi. Non è detto quindi che in futuro la loro oggettiva “dipendenza” dall’Unione, per quasi la metà dell’interscambio economico e commerciale, sia destinata a rimanere tale. Ma soprattutto le grandi potenze esterne possono riaccendere le rivalità nazionalistiche fra gli stati balcanici. Ed è proprio ciò di cui l’Europa non ha bisogno.

La Croazia dovrà quindi rimettere in moto la politica di allargamento dell’UE in occasione della grande conferenza su UE-Balcani, che si terrà a Zagabria nel maggio del prossimo anno. Ma non potrà essere la sola Croazia responsabile nell’indirizzare sui giusti binari il discorso con i Balcani. Fra gli altri, una grande responsabilità peserà anche sull’Italia, il cui intervento potrebbe contribuire a fare pendere l’Ue dalla parte anche dei nostri interessi nazionali, che consistono in una regione balcanica integrata e stabile.

A preoccuparci è tuttavia il silenzio del nostro governo e la disattenzione con cui questa grande problematica è seguita. Ci aspettiamo un soprassalto di buona politica, prima che sia troppo tardi.

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