Delia, quanto mi resta da vivere?

Lo conosco in prigione grazie ad un altro prigioniero che mi accompagna a visitarlo. Una cella buia, senza finestre, con dei piccoli buchi in alto sul muro per permettere che entri un po’ d’aria. Eccolo lì in fondo, rannicchiato, su un pezzo di ferro che funge da letto. Vestito con una specie di divisa color cachi, tipica di coloro che in questo luogo non hanno neanche un pezzo di vestito proprio.

Deka è il suo nome. Sofferente, cupo, restìo a rispondere alle mie domande. Subito noto che il suo volto è strano, la guancia sinistra molto gonfia. Non si lamenta del dolore. Mi chino su di lui, gli stringo la mano, lo saluto. Mi risponde e accenna un sorriso. Per rispetto si alza un pochino e appoggia faticosamente la schiena al muro. Mi siedo accanto. Abituata ora al buio guardo bene e gli chiedo se ha mal di denti o un’infezione. Mi risponde a monosillabi che non sa di cosa si tratti. Resto un po’ con lui e gli assicuro che avrei cercato aiuto per curarlo. Annuisce e ci separiamo. Gli traccio un segno di croce sulla fronte e gli accarezzo la guancia malata.

Esco dalla prigione con un solo pensiero: cercare in fretta qualcuno che si occupi di lui. Chiamo al telefono la responsabile della Croce Rossa Internazionale e le spiego tutto. L’indomani, Deka è all’ospedale. Non c’è bisogno di nessun esame. I medici, tutti concordi, mi dicono che è un tumore e che non c’è niente da fare. Lo dimettono dopo due giorni. Non mi arrendo. Penso che tra quattro mesi arriveranno qui a Uvira alcuni medici italiani del Progetto Sorriso. Mi intristisce il pensiero che Deka passi tutto quel tempo in prigione, sofferente, senza cure. La Provvidenza arriva.

L’Amministratore del Territorio convoca una riunione sulla situazione della prigione centrale di Uvira e invita anche me oltre naturalmente il direttore della Prigione, Il Medico di Zona, l’ONU, la Croce Rossa Internazionale, la Caritas e altri. Ho l’occasione di parlare di Deka e di chiedere il permesso che possa passare questo tempo in una famiglia qui a Uvira. Tutti dicono di sì ma dopo un mese, niente di fatto. Lo vedo tutte le settimane, il tumore avanza, il viso è tutto gonfio, l’occhio si è chiuso, fatica a mangiare anche la pappetta di farina di manioca o di granoturco.

Comincia a farsi strada in me l’idea di accompagnarlo anche spiritualmente in questo percorso. Parlo a lungo con lui, mi faccio aiutare anche da altre persone. Il male avanza. Voglio a tutti i costi che esca di là per poter passare l’ultimo tratto della sua vita in una famiglia normale. Scopro che ha dei parenti alla lontana proprio qui a Uvira. Si rendono subito disponibili ad accoglierlo, curarlo, fargli sentire il calore di casa mentre tutti, sua moglie, i suoi figli, gli altri famigliari che abitano lontano da qui, l’hanno abbandonato. Théo, sua moglie e i suoi figli vogliono accoglierlo. Ma come fare a farlo uscire da quell’inferno? Il responsabile dell’Onu per le questioni carcerarie viene a trovarmi dove lavoro. Gli dico subito che Deka è ancora in prigione nonostante tutte le promesse che le autorità ci avevano fatto. Pieno di collera si alza di scatto e mi dice che prima di sera Deka sarà libero. E così è. Salto di gioia e corro a trovarlo.

Dopo due giorni lo invito a venire a vedere dove lavoro e conoscere i miei collaboratori. Accetta. Arriva accompagnato da Théo. Lo faccio sedere nel mio ufficio. Mi dice che gli sembra di essere in paradiso. Si guarda intorno sorpreso. Da quanto tempo non sedeva su una poltrona… Gli chiedo il permesso di fare qualche foto con lui. Accetta subito.

Parliamo del più e del meno, la sua gioia è immensa, mi ringrazia con tutte le parole possibili immaginabili e mi esprime i suoi sentimenti con un sorriso e un AKSANTI (grazie) che non scorderò mai. Da quel giorno, non gli facciamo mancare alimenti un po’ liquidi, facili da deglutire. Théo e tutta la sua famiglia sono incredibili nei tanti gesti di amore, tenerezza, attenzione. Un infermiere amico della famiglia lo cura come fosse suo figlio, con una competenza straordinaria. Arriva a fargli persino trasfusioni di sangue e flebo in casa, lo imbocca con tenerezza, lo lava e lo cambia.

Théo accoglie già altre persone in casa sua che è divenuta come una casa famiglia: poveri, abbandonati, soli. La sua testimonianza mi tocca nel profondo.

Chiedo a Deka se è cristiano, se è stato battezzato . Scopro con gioia che si chiama anche Jean, che ha ricevuto tutti i sacramenti tranne quello del matrimonio.

“Delia, quanto mi resta da vivere”, mi chiede un giorno. Gli rispondo che non lo so, che aspettiamo questi medici italiani e intanto lottiamo insieme. Gli regalo un libretto di preghiere in swahili, gli do un rosario. Interesso alcuni amici e colleghi di lavoro per andare a trovarlo, parlare e pregare con lui. E’ una corsa contro il tempo perché capiamo che sta “andando”… Interesso il parroco affinché possa venire per l’unzione dei malati.

Pochi giorni dopo, mi chiamano: Deka si sta aggravando. Al mattino vado subito a vederlo. Deka Jean non c’è più… Mi dispiace che non mi ha aspettato… “Alirudia kwa Baba” : E’ tornato a Dio Padre. Il suo corpo è là, disteso, sereno. Lo vestiamo a festa. Cantiamo davanti a lui tutta la mattina, con un piccolo gruppo di mamme insieme a Rehema nostra sorella e Michel, mentre fuori preparano il suo funerale. Piango, piangiamo. Riflettiamo sul suo veloce passaggio nella nostra vita. Lo accompagniamo con la nostra preghiera. Rivedo come in un film questi pochi mesi accanto a Deka Jean. Contemplo la Provvidenza divina che si è servita di tante persone e in particolare della famiglia di Théo per farlo sentire amato, ciò che non provava da tanto tempo.

Porto tutto nel cuore. Mi rende forte nella testimonizanza quotidiana da rendere al vangelo. Ringrazio e vado avanti con fiducia e speranza, continuando, finchè Dio vorrà, a passare in questo mondo facendo del bene, come Gesù.

Suor Delia Guadagnini*

* missionaria saveriana a Uvira – Repubblica Democratica del Congo

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