Fine vita, ora la sfida è ancora più grande

Nel ricevere con “sconcerto” la decisione della Corte costituzionale sul suicidio assistito di giovedì scorso, i vescovi italiani hanno espresso profonda preoccupazione per “la spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità”. Che cosa dice esattamente la decisione della Corte? In sostanza, i giudici dicono questo, che la legge sul consenso informato approvata nel 2017 dal Parlamento così com’è non va bene. Non basta, secondo la Corte, che il Parlamento abbia riconosciuto a tutti il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, compresi quelli indispensabili per sopravvivere, nonché di avere accesso alla sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte. Occorre, secondo i giudici, che, in determinate circostanze, sia garantito anche l’aiuto al suicidio. Un anno fa la Corte ha ordinato al Parlamento di modificare la legge in questo senso; il Parlamento non lo ha fatto e giovedì scorso, per così dire, la Corte ha provveduto da sé.

La Corte non dice invece assolutamente che ognuno ha il diritto di ottenere la morte a comando, anche se non mancano i sostenitori dell’assoluta autodeterminazione individuale che vorrebbero farglielo dire. Ma il comunicato stampa della Corte – l’unico testo ora disponibile, in attesa della sentenza vera e propria – chiarisce benissimo che l’aiuto al suicidio può essere un diritto solo in circostanze eccezionali, cioè quando lo richieda “un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Al di fuori di queste ipotesi eccezionali, prevale il dovere di tutelare le persone vulnerabili e l’aiuto al suicidio rimane un reato.

Le sentenze della Corte costituzionale si devono rispettare, ma si possono criticare. Medici e giuristi conoscono bene la differenza fra rispettare la volontà del paziente di non essere curato e provocarne o agevolarne la morte su sua richiesta. Il Parlamento ha deciso di rispettare questa distinzione, garantendo il diritto di rifiutare le cure ma escludendo l’aiuto al suicidio. Davvero non si capisce in base a quali ragioni la Corte abbia ritenuto che la nostra Costituzione obblighi ad andare oltre, imponendo, pur in casi molto limitati, l’obbligo di aiutare una persona a darsi la morte. Ma così hanno deciso i giudici.

Cosa rimane a chi crede che la persona malata vada sempre aiutata nella sua fatica di vivere e mai nel suo desiderio di morire? Si discute in questi giorni della possibilità per i medici di esercitare l’obiezione di coscienza, un diritto che certamente andrebbe loro riconosciuto. Credo tuttavia che questa decisione della Corte provochi a misurarsi con una sfida ben più grande, quella di testimoniare i valori in cui si crede in un contesto di sempre maggiore libertà individuale. Questo mi pare il senso di un altro richiamo dei vescovi italiani, che “confermano e rilanciano l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati”. La legge può riconoscere il diritto di morire, ma quando una persona deve decidere della propria vita non cerca risposte nella legge, le cerca nelle persone che gli stanno accanto. Così, mentre si chiude una partita, quella istituzionale, ne rimane aperta un’altra, più decisiva, che non si gioca in Parlamento né nei tribunali, ma nella vita quotidiana: impegnarsi perché la dignità della vita nella malattia non sia un principio astratto ma un’esperienza reale vissuta dalle persone più vulnerabili.

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