Ibridi ma vincenti

Trento Nord. Camminata serale di una domenica di fine maggio, a scavalco della ferrovia del Brennero, destinazione Solteri, per la festa di quartiere. Ѐ una buona domenica: al mattino la squadra di calcio di mio figlio si è aggiudicata il primo posto del girone. Vittoria sofferta ma meritata.

In mezzo chilometro di strada incrocio una decina di persone: due badanti che stanno probabilmente per riprendere servizio, un gruppetto di giovani africani su biciclette improbabili, sudamericani con amplificatore portatile e musica a palla, un asiatico in abito originale. Indigeni trentini: non pervenuti. Cinquecento metri consegnano a sorpresa un angolo di mondo inatteso di cui non conosco nulla, ma che di certo condivide il mio stesso pezzo di città. Un cavalcavia metafora di comunità mista, territorio di mescolanze. Come quelle descritte nel bel saggio del collega Simone Casalini, caporedattore del Corriere del Trentino “Lo spazio ibrido” (ed. Meltemi), presentato venerdì scorso a Sociologia in un confronto con vescovo Lauro e sindaco Andreatta. Un complesso viaggio a toccare le sponde del Mediterraneo, dalla Tunisia a Genova, passando per Mazara del Vallo e Ventimiglia, dove opera un prete profugo colombiano, don Rito Alvarez, che apre le porte della sua chiesa ai migranti respinti dalla gendarmeria francese. E poi su, fino al Brennero, in pochi mesi filtro obbligato per quasi trentamila richiedenti protezione internazionale.

Al di là dell’emergenza e di porti più o meno chiusi, il viaggio di Casalini dimostra che l’ibrido è parte integrante di queste comunità, non può essere riassorbito, neutralizzato. Ѐ giudicato risorsa o impurità. Suscita convivenza o intolleranza. Apre un orizzonte nuovo o spinge a erigere barricate. Ma è un dato ineludibile, antropologico. “Mi contamino, dunque esisto”, lo declina don Lauro aggiornando la massima cartesiana (penso, dunque sono), mentre Andreatta snocciola le oltre cento nazionalità che fanno il tessuto cittadino.

L’ibrido c’è, così come esiste quella pagina del Vangelo di Matteo al capitolo 25 (“ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito”) che – rammenta il vescovo – non ammette chiavi interpretative al ribasso, pur non rinnegando politiche sostenibili dell’accoglienza auspicate anche da papa Francesco. Sostenibili, ma non irrazionali, illogiche, disumane. E rivolte necessariamente a chiunque stia nell’indigenza, senza lasciar indietro nessuno, senza patenti di nazionalità. Ma evitando anche possibili paradossi sociali, alla base talora dei mugugni autoctoni.

Per questo servono però percorsi coraggiosi di ricerca della verità e del dialogo, lontano da derive ideologiche. Senza tralasciare la consegna della storia. Il saggio di Casalini recupera a tal proposito una vicenda emblematica, per i più dimenticata. Racconta delle decine di migliaia di soldati senegalesi costretti a combattere sui fronti della Grande Guerra per difendere confini a loro del tutto estranei. Ragazzi di colore a cui il colonizzatore bianco mette in mano un fucile che diverrà per molti condanna a morte. L’Europa smemorata bagnata di sangue africano. L’Europa dai confini storicamente ibridi. Oggi contraddetti da troppi, sprezzanti, muri.

Ho passato molte domeniche a tifare mio figlio, mandando quasi a memoria la formazione tipo con cui è sceso in campo in una trentinissima società sportiva: roccia difensiva pakistana, cervello di centrocampo thailandese, il solido mediano arriva dalla Tunisia, il fantasioso esterno è di sangue albanese, il cecchino dei calci d’angolo ha DNA asiatico, per finire con il jolly d’attacco: tecnica sopraffina e famiglia rom. Un campo di calcio trasformato in terreno ibrido. E l’ibrido vincente non si cambia.

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