Nel terrore a Dimaro ho visto grandi cose

Quomodo facti sunt in desolationem”. Con questo splendido versetto del salmo 73, l’allora curato di Dimaro e Carciato, don Marco Odorizzi, introduceva il racconto dettagliato di quel 16 settembre 1882, quando il Rotian, insieme agli altri due torrenti che circondano e quasi assediano il paese di Dimaro, avevano trasformato un normale giorno di vita alpina in “dies amara valde”, una giornata di dolori e di drammi.

La catastrofe che dopo 136 anni si è abbattuta su Dimaro il 30 ottobre scorso con l’esondazione del Rotian può essere riassunta e compresa con altri due versetti dello stesso salmo 73: Ecco, li poni in luoghi scivolosi,li fai cadere in rovina. Sono distrutti in un istante!Sono finiti, consumati dai terrori!

Sì, abbiamo vissuto una vera notte di terrore, proprio come nel 1882: “Fra questi tre torrenti ingrossati e minacciosi – scrisse ancora il testimone don Odorizzi – restò per molti giorni questo paese isolato in modo, che venne a mancare di pane e di cibo, fortunato però ancora in tanto flagello, che non ebbe la disgrazia di nissuna persona”. Le vittime che l’intera Valle di Sole dovette piangere in quel frangente poi furono ben sette.

Quello che abbiamo vissuto e sofferto a iniziare dalla serata di lunedì 29 ottobre 2018, assomiglia stranamente al disastro di 138 anni fa e, per molti aspetti, ne ripete pari pari la drammaticità, la gravità, la sofferenza, le ferite.

La pioggia dirotta, a rovescio e a nubifragio, cui possiamo aggiungere la memoria spaesata di un vento caldo, a turbine, ululante, da deserto; la notte incombente, con le tenebre bucate solo da qualche torcia e faro di macchina operatrice; il fragore dei macigni trascinati a valle da una forza immane e indomabile, che si scontravano, si accavallavano, si mescolavano a tronchi, rami, detriti di tutti i generi; la melma invadente e appiccicosa che ti toglie il movimento e il respiro e ti incapsula in una tomba mobile; il senso di precarietà, di insicurezza, di “inabitabilità” di qualsiasi luogo, compresa la propria casa; l’assenza di un luogo chiaramente definibile come meta di salvezza e di sicurezza; la strada asfaltata trasformata in fiume fangoso, in gora mortale insuperabile; le urla di chi chiedeva aiuto o solo consiglio; le preghiere di chi paventava l’ultima ora di sua vita; il sordo accorrere di mezzi e di persone pronte a contrastare il nemico, ma sbigottite dalla ampiezza e dalla indeterminatezza dell’evento catastrofico cui dovevano fare fronte; il tonfo delle colate detritiche che livellavano campagne, piazzole e strade; l’invasione di acque e fango nelle case, il formarsi di nuovi letti di scorrimento e di deiezione di acque non più trattenute da ripari ed argini, alcuni di questi di fattura moderna, questo e molto altro ancora faceva pensare di essere giunti ad un punto di non ritorno, al “redde rationem” finale.

E poi, a mano a mano che passavano le ore, l’angosciosa domanda: ci siamo tutti? forse no! e … Michela dove è? Ce lo siamo chiesti in molti in quella notte di tragedia e a diverse riprese e con non celate angosce; e moltissimi, ad iniziare da suo marito, dai suoi genitori, dal fratello, dai pompieri, dagli amici, dai volontari, si sono messi in campo a sfidare il destino, per tentare di evitare un sacrificio troppo pesante ad una famiglia e ad una comunità. Ma non c’è stato nulla da fare. Il Moloch ha voluto anche il sacrificio umano.

Se nel 1882 i nostri avi hanno patito fame, paura, isolamento, interramento di campi e prati, distruzione di risorse, a noi è andata anche peggio: abbiamo dovuto piangere la morte di una persona, di una mamma di famiglia, di una donna innocente e buona.

Va anche aggiunto però che ,rispetto ai nostri avi, abbiamo potuto sperimentare cosa significa in Trentino (e mi si passi l’impertinenza: particolarmente in Val di Sole e di Non) la presenza di un volontariato organizzato di soccorso, di tutela, di prevenzione, di protezione e assistenza. Se alle 22 e 30 di lunedì 29 ottobre 2018 eravamo alla disperazione, non sapendo più che fare, che dire, dove andare, dopo la mezzanotte eravamo tutti accolti in case sicure, calde, ospitali; i più in un hotel (guarda caso, ancora “sui Bonetei”, come nel 1882 e sotto l’egida di un Santo (San Camillo) deputato alla cura del corpo e dell’anima…), con un letto disponibile, con la sicurezza di non essere soli, con l’umanità di chi non compiange e non si lamenta a parole, né pontifica sui massimi sistemi, ma si curva a curare, a lenire, a rassicurare.

No, non è stata un’esperienza facile da affrontare, da gestire, da superare e molti di noi, compresi bambini e adolescenti, porteranno a lungo i segni della cicatrice e le ombre invasive del terrore notturno.

Però nella disgrazia immane che ci ha minacciato, ci sono evidenti segni di resurrezione, si sono manifestate cose grandi. Ricordare tutti gli episodi di solidarietà è impossibile, tacerli è viltà. E allora, accanto alle tenebre che minacciavano di travolgerci, proviamo a riassumere le luci della solidarietà che si è dispiegata senza clamore, ma in modo efficace e competente.

Se in questo elenco inserisco per prime e nomino con riconoscenza le amministrazioni comunale, provinciale e della comunità solandra, non lo faccio per piaggeria o per captatio benevolentiae. Gli amministratori locali e provinciali, in questa circostanza, li abbiamo visti con i nostri occhi e, taluni, per giorni e notti intere, intenti non a pellegrinaggi elettorali, a defilé arroganti e a inutili sopralluoghi sui siti disastrati o, peggio, impiegati in indecorose esibizioni di proselitismo e di “raccolta voti”, ma impegnati essi stessi nel fango e nella fatica a organizzare, a provvedere, a decidere: esattamente a fare il loro importantissimo lavoro di tessitura delle risorse, degli interventi, delle soluzioni.

Difficile poi solo riassumere ciò che hanno saputo fare gli uomini dei nostri Corpi dei Vigili Volontari del Fuoco, trasformatisi in punta d’acciaio della Protezione civile, insieme con la Croce Rossa, e con un nugolo di volontari, uomini e donne di tutte le età e di tutte le carature sociali, che ci hanno letteralmente “coccolato” nel nostro esilio e hanno provato in tutti i modi a farci dimenticare, almeno in parte, le bastonate ricevute dal destino.

Qui gli esempi potrebbero riempire le pagine di un libro. Rimangono però nel mio sguardo attonito e nella memoria, quasi come simboli emblematici, alcune scene che mai dimenticherò: un presidente della Provincia che convince un’anziana signora a uscire dalla propria casa in pericolo e se la porta in salvo in albergo; un parroco non ancora “entrato” in carica che celebra la Messa in albergo e organizza la “castagnata sociale” per tutti gli sfollati; uno sfollato non residente, che, dopo aver persa la casa e salvata a stento la vita, ti offre un po’ della sua preziosissima produzione di “aceto balsamico” per insaporire il cibo della carità; l’imprenditore, che dopo aver perso il lavoro di una vita e aver dovuto licenziare tutti i suoi dipendenti, offre loro la “cena sociale” al ristorante.

E si potrebbe continuare …(e in futuro magari lo faremo).

Ognuno di noi ha eretto nel suo cuore un piccolo monumento di gratitudine per queste persone, che senza alcun obbligo e a puro titolo di solidarietà umana, hanno saputo farsi vicine al prossimo bisognoso, correndo anche qualche serio pericolo personale, per non mancare a un precetto civico ed umano di altruismo e di solidarietà.

Udalrico Fantelli

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