I poeti cinesi e il coronavirus

Ristorante cinese a Trento. Foto Gianni Zotta

Lo spunto

Il 3 febbraio scorso, ospitato a Villa Sant’ Ignazio come è avvenuto sin dall’inizio (grazie a Padre Livio Passalacqua, ora a Gallarate, che salutiamo con un abbraccio) è iniziato il 22° corso di poesia . Condotto da chi scrive, gratuito, limitato a una ventina di corsisti, con cadenza settimanale per quattro mesi è un unicum in Italia, in cui sei poeti di tutti i Paesi e di tutte le epoche ogni anno vengono non “studiati” ma “invitati”.

Quest’anno il primo poeta “invitato” è stato Li Shangyin (813-858) ultimo grande poeta della dinastia T’ang (618-905). Nel 2011 incontrammo il primo poeta di questa dinastia, Po Chu- i (771-846) che criticava i governanti, ma cantava anche l’amicizia e gli affetti famigliari, come nei versi dedicati alla figlioletta Campane d’Oro, morta bambina .

Nel 2019 fu la volta di Sou Che, poeta che scriveva che “La fama di un solo generale / si fa con diecimila corpi morti.” Li Shangyn , di turno quest’ anno , di sorprendente modernità, è il poeta delle lontananze, delle dissolvenze, dell’insondabilità della vita. Nonostante le enormi distanze temporali, geografiche e linguistiche la voce di questi poeti della dinastia T’ang riesce a raggiungerci , a farci pensare, a commuoverci. È il miracolo della poesia.

Pensavo a questo in questi giorni in cui la Cina e i Cinesi sono gli “osservati speciali” e c’è paura per una pandemia planetaria incontrollabile.

Sono un popolo speciale i cinesi, il più numeroso popolo che si sia visto sulla faccia della Terra. È passato attraverso le vicende più gigantesche e spaventose: carestie interminabili, alluvioni, guerre civili. Ma sono un grande popolo, i Cinesi: ci ha regalato invenzioni come la stampa, la polvere da sparo, la bussola … ha edificato la Muraglia Cinese, la più grande costruzione realizzata dall’uomo . E ce li abbiamo sottocasa silenziosi, sorridenti, infaticabili: coi loro negozietti a prezzi stracciati, le pettinatrici e i parrucchieri, i ristorantini , le rosticcerie. Per loro il coronavirus è un alluvione, un disastro.

Allora non facciamoci prendere da isterismi (“Uomini siate e non pecore matte!” diceva Padre Dante), diamogli una mano. Quanto a me, nel mio piccolo, continuerò a leggere e far leggere poesie cinesi, ad andare dal mio parrucchiere sottocasa, andrò ogni tanto a mangiare al ristorantino cinese come faccio da una vita, andrò a ricomprare dai cinesi un paio di guanti di pelle ( soffro il freddo alle mani, ho bisogno di guanti, ma ne perdo sempre uno, come ieri, con dieci euro me la cavo…). Farò due chiacchiere con loro e cercherò di confortarli dicendo che sono un grande popolo, che ne verranno fuori alla grande e noi con loro. E nell’andarmene li saluterò con un ” ni hao” , che vuol dire “ciao”. Sono due saluti simili.

Renzo Francescotti

Due saluti simili, “ni hao” e “ciao”. Fa bene ricordarlo. Come fa bene ricordare che il Trentino ha legami diretti e antichi con la Cina, per il gesuita Martino Martini che la esplorò nel Seicento, e per i grandi sinologhi che la studiarono in epoca recente, come Noemi Stefenelli, che fu lì ambasciatrice, Enrica Collotti Piscel (della storica famiglia di Folgaria) che analizzò il passaggio dal maoismo alla modernità e il sociologo mons. Franco Demarchi.

Le cronache e i libri di Gianpaolo Visetti, per anni corrispondente di “la Repubblica” da Pechino, sono ancora vivi in chi li ha letti. E’ una realtà, quella cinese, che Francescotti riposiziona in tempi più lontani (quelli della poesia) per renderla ancora più attuale, perché la poesia è lo specchio di ogni condizione umana.

Fa bene ricordare che “la Cina è vicina” anche per altre ragioni. E’ forse una coincidenza, ma non un caso forse che la lettera di Francescotti a questa rubrica sia stata recapitata venerdì e che il giorno successivo, sabato, sia uscita sui giornali la notizia dell’incontro, per la prima volta, fra il ministro degli esteri della Repubblica popolare cinese Wang Yi e l’arcivescovo Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli stati del Vaticano. Civiltà romano cristiana in occidente, Celeste impero in oriente, due realtà millenarie, anche oltre le religiosità, che se sapranno incontrarsi potrebbero davvero cambiare e salvare il mondo. E’ questo che suggerisce Francescotti con il suo invito alla poesia.

Fra queste prospettive il coronavirus ha colpito la Cina e il resto del mondo come uno tsunami violento, portando non solo paura e morte, ma precisi avvertimenti. E così come già Vaia aveva mostrato che la natura reagisce ai saccheggi climatici ed è più forte di ogni tecnologia umana, così il virus ha evidenziato che la globalizzazione finanziaria, il misurare ogni parametro di esistenza sul “pil”, il far cadere ogni controllo sui traffici, sui commerci, sul turismo non può costituire la sola base di un futuro di civiltà e di sviluppo. I rapporti di lavoro e di commercio devono essere impostati su altri, più rispettosi, riferimenti.

Il virus ha anche mostrato che è davvero tempo che la Cina diventi davvero un partner con cui confrontarsi e non un paese da sfruttare o dal quale essere sfruttati. Non può essere che in occidente manchi lavoro perché nelle fabbriche mancano pezzi che non arrivano dalla Cina, non può essere che la Cina continui a essere vista come un mercato dove far produrre beni e prodotti a basso prezzo da rivendersi poi maggiorati in occidente. Con la Cina saper creare le condizioni per un mondo capace di camminare su due gambe, oriente e occidente, verso un futuro di pace. A questo serve la poesia, a questo mira l’incontro fra Pechino e Vaticano, a questo serve la poesia dei corsi a Villa Sant’Ignazio.

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