Non è solo un “giallo medioevale”

Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo questo contributo dopo il nostro articolo sul numero 11 di Vita Trentina.

L’articolo che “Vita Trentina” del 24 marzo ha dedicato alla fiction televisiva Il nome della rosa ne ha apprezzato la struttura dialogica, la capacità di emozionare, la bellezza delle immagini e il rilievo dato alle figure femminili; e ha richiamato la vicinanza tra il titolo e il poema allegorico Il romanzo della rosa, quasi che il testo di Umberto Eco (sul quale è basata la versione televisiva) volesse trattare dell’iniziazione all’amor cortese. Da parte mia ho trovato la fiction tecnicamente ben strutturata e ben interpretata, ma in molti punti inutilmente prolissa; e mi hanno infastidito gli inserimenti di temi e personaggi (duelli, figure femminili, scene romantiche) che non fanno parte del mondo descritto da Eco. Gli sceneggiatori avranno pensato che questi inserimenti sarebbero stati graditi agli spettatori, ma ci hanno portato lontano dal romanzo da cui si è presa l’ispirazione.

Se prendo la tastiera è infatti per far notare che la versione televisiva (come già il film che era stato girato negli anni Ottanta) tradisce, o almeno nasconde, il senso del testo, inducendo lo spettatore a pensare che la “rosa” di cui si parla sia la donna amata (fugacemente nel romanzo, molto più romanticamente sullo schermo) dal giovane monaco Adso, una donna di cui egli non saprà mai neppure il nome. Ma Eco parla di tutt’altro: il titolo fa infatti riferimento a un motto della filosofia tardomedievale che denuncia la distanza tra la conoscenza umana e la realtà. Tale motto chiude le ultime righe del romanzo, con le quali l’ormai anziano Adso si congeda dal lettore: “Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Di rose, nel Nome della Rosa, c’è solo questa: ciò che possiamo conoscere è solo il nudo nome degli oggetti, mentre della realtà in quanto tale non ci rimane nulla.

L’uomo è dunque padrone solo delle proprie inutili parole. La verità che il frate-investigatore Guglielmo da Baskerville raggiunge non gli permette né di sventare i delitti, né di impedire la distruzione della biblioteca; l’impegno per la giustizia portato avanti dai Dolciniani si trasforma in sterile violenza (prima portata, poi subita) che nulla muta nei rapporti di forza (è questo un tema particolarmente caro a Eco, che scrisse il suo romanzo alla fine degli anni Settanta trasferendo sulle pagine tutte le preoccupazioni di un’epoca). Non di donne si parla, né dei loro nomi, e forse nemmeno di monaci e di abbazie: Il nome della rosa descrive la sconfitta dell’ambizione umana di comprendere la realtà. Per questo è uno dei più interessanti romanzi del Novecento. Non è detto che con un tema come questo si possa fare una fiction di successo, ma chi dopo la visione televisiva vorrà leggere il libro è bene che sappia che non vi troverà solo un “giallo medievale”.

Emanuele Curzel

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