Oltre il tabù della morte

La critica: nella legge sulle Dat (disposizioni anticipate di trattamento) è mancata l’attenzione al vissuto di chi deve praticare scelte terapeutiche che non lasciano mai indifferenti

Cosa sono le cure palliative? La maggior parte delle persone le associa al "luogo dove si va a morire", ma si tratta di ben altro e per questo occorre promuovere un'informazione che faciliti il necessario cambiamento culturale rispetto alla mentalità corrente. È una delle sfide messe in evidenza durante la presentazione del numero monografico Salute e Società (n. 3/2017, FrancoAngeli) dedicato a "Le cure palliative: network, pratiche sociali e vissuti soggettivi", a cura di Annamaria Perino, sociologa dell'Università di Trento e membro della Società italiana di sociologia della salute, e Mariano Flocco, medico palliativista ASReM Molise, incontro promosso dal Dipartimento di Sociologia e dalla Fondazione Hospice Trentino Onlus svoltosi giovedì 29 marzo nella sala conferenze della Fondazione Caritro a Trento.

“Le cure palliative sono un diritto fondamentale, non ancora adeguatamente garantito. La legge 38/2010, fornisce indicazioni riguardanti i servizi territoriali e le figure professionali da coinvolgere e formare, ma occorre maggiore integrazione socio-sanitaria”, ha esordito Perino, introducendo una riflessione a più voci, moderata da Milena Di Camillo, presidente della Fondazione. “Si vive più a lungo, affrontando malattie cronico-degenerative, dunque occorre avere cura della persona promuovendo un approccio interdisciplinare attento ad ogni suo bisogno: fisico, psicologico, sociale, spirituale”.

“C'è uno iato tra la percezione sociale della morte, verso la quale c'è una curiosità morbosa, amplificata dai social network che diffondono immagini crudeli e dettagliate, e l'esperienza privata, quando la perdita di un caro ci coglie impreparati – ha detto Davide Gales, sociologo dell'Università di Trento -. Il medico deve mantenere distacco emotivo, ma al tempo stesso essere ragionevolmente coinvolto. La morte torna a essere un tabù quando il paziente ha caratteristiche simili alle proprie e ci si identifica, oppure è molto giovane, e quando l'organizzazione terapeutica non funziona". Emerge dunque la necessità di attuare una sintesi tra il linguaggio dei significati individuali e quello professionale poiché senza di essa, l'operatore sanitario è sguarnito rispetto al supporto che può dare al paziente e ai famigliari.

"Le dimissioni protette – ha spiegato Anna Maria Russo, assistente sociale referente rete nazionale assistenti sociali in cure palliative – hanno l'obiettivo di garantire un processo di accompagnamento della persona verso un setting assistenziale attento e rispettoso dei suoi bisogni. Esse dovrebbero essere svolte da infermieri e assistenti sociali insieme, inoltre sarebbe utile elaborare un protocollo comunicativo che dia indicazioni operative concrete di tipo circolare, in modo che tutti siano coinvolti nella valutazione e presa in carico". L'organizzazione stessa delle cure palliative sta evolvendo, estendendosi a malati non oncologici, per esempio affetti da sla o patologie polmonari, dunque agli assistenti sociali verranno richieste competenze valutative sempre più articolate. "In Trentino entriamo nelle case di 378 pazienti, 31 dei quali sono bambini, ma il carico dell'assistenza è tutto sulle spalle delle famiglie – ha commentato Gino Gobber, medico palliativista Apss Trento, offrendo una riflessione sui percorsi assistenziali a domicilio -. Gli infermieri che effettuano le visite a domicilio possono andare essi stessi incontro al rischio di burn-out. Nella legge sulle Dat (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, 22 dicembre 2017) è mancata l'attenzione al vissuto di chi deve praticare scelte terapeutiche che non lasciano mai indifferenti".

"La parola terminale accostata a malato non è rispettosa – ha evidenziato Massimo Bernardo, medico palliativista Comprensorio sanitario Bolzano -: sono le malattie che hanno una fase terminale, che può essere anche abbastanza lunga, e l'obiettivo delle cure palliative è quello di garantire una migliore qualità della vita del paziente e della sua famiglia, intervenendo precocemente e lavorando con tutti gli specialisti coinvolti. La sfida più grande è promuovere percorsi di aggiornamento e investire di più sulla formazione e aumentare la consapevolezza dei benefici che esse portano".

"L'equipe medica può offrire una cura spirituale in termini di conforto umano e speranza e l'atto di essere presente può essere già in sé curante – ha detto Arnaldo Pangrazzi, docente dell'Istituto di teologia pastorale di Roma, a proposito dei bisogni spirituali -: la riflessione con cui cerchiamo di aiutare il malato a rivisitare la propria vita e dare senso al patire e al morire è un atto spirituale, un momento importante ai fini dell'umanizzazione delle cure".

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